Quando si parla della storia del Sudafrica c’è un tema poco ricordato o addirittura trascurato. 

Ci riferiamo all’atteggiamento delle Chiese sudafricane verso la politica razzista attuata dal governo di Pretoria, durante i decenni in cui vigeva l’apartheid (dal 1948 – anno della vittoria del National Party – al 1994, quando si svolsero le prime elezioni libere e democratiche aperte a tutti).

L’anno di riferimento da cui partiamo per analizzare tale questione è il 1960, poiché segna un vero e proprio punto di svolta a seguito dell’eccidio di Sharpeville.

Come abbiamo spiegato in dettaglio in un precedente Articolo, Sharpeville, a circa cinquanta chilometri a sud da Johannesburg, era il punto di convergenza di una protesta pacifica contro le pass law, le leggi sui lasciapassare. Sebbene i manifestanti fossero senza armi, il contingente di polizia, numericamente inferiore rispetto ad essi, si fece prendere dal panico e iniziò a sparare uccidendo 69 persone e ferendone molte altre.

Di fronte a questo massacro perpetrato dalla polizia, alcuni settori ecclesiastici iniziarono a esprimere apertamente il loro dissenso verso la politica di apartheid. Pochi mesi dopo l’eccidio di Sharpeville, nel dicembre dello stesso 1960, presso un sobborgo di Johannesburg, venne indetta la conferenza nota col nome di Cottesloe Consultation.

L’importanza della Cottesloe Consultation

La Cottesloe Consultation fu un evento religioso rilevante, in quanto i rappresentanti di tutte le chiese facenti parte del World Council of Churches (il Consiglio ecumenico delle Chiese) si riunirono, per la prima volta, per discutere il loro atteggiamento nei confronti della politica di sviluppo separato: circa un terzo dei delegati appartenevano alle Chiese Riformate Olandesi. Nonostante i diversi orientamenti, i convenuti, ad eccezione dei delegati della Nederduitsch Hervormde Kerk (espressione della visione afrikaner), raggiunsero un accordo. Venne quindi sottoscritta la Dichiarazione di Cottesloe, nella quale venne apertamente respinta la politica di apartheid.

Furono rifiutate una serie di politiche: in primis, vennero respinti categoricamente la segregazione razziale nella chiesa e la proibizione di contrarre matrimoni misti; fu criticato anche il sistema del lavoro migrante. Venne poi affermato che ogni persona aveva il diritto di cittadinanza e di proprietà.

Tale dichiarazione, considerata nel contesto dell’apartheid sudafricano, rappresentava un forte dissenso verso la politica del partito nazionalista. Altro elemento rilevante e non trascurabile era l’adesione al documento finale dei delegati della Nederduitse Gereformeerde Sendingkerk, la più autorevole delle tre Chiese Olandesi Riformate. Proprio tale appoggio non passò inosservato.

Infatti, l’allora Primo Ministro Hendrik Verwoerd fece pressioni affinché i vertici ritirassero il loro sostegno, riuscendo nel suo intento. Conseguenza diretta di questa rettifica, fu la formazione di un nucleo di teologi afrikaner dissidenti dalla posizione adottata dalla NGK.

Capeggiato da Beyers Naudé, tale gruppo, nel mese di maggio del 1962, iniziò la pubblicazione della rivista mensile Pro Veritate, con la quale si proponeva di far rivivere e alimentare, fra i pastori di origine olandese, lo spirito critico che contraddistinse la conferenza di Cottesloe.

Mentre le tre Chiese Rifornate Olandesi continuarono nel loro appoggio alla politica del National Party, Beyers Naudé, nel 1963, accettò la direzione del Christian Institute of Southern Africa, la cui funzione principale consisteva nel fornire un sostegno ecumenico a tutti i membri dissidenti della NGK e a tutti quei religiosi contrari alla dottrina dello sviluppo separato.

Il ruolo anti-apartheid del Christian Institute of Southern Africa

Beyers Naudé

L’azione del Christian Institute of Southern Africa spaziava in più direzioni: dai servizi di informazione ecumenica agli studi biblici; inoltre, si proponeva di assumere il ruolo di agente di cambiamento sociale, religioso ed economico, volto alla fondazione di un nuovo modello di società civile basato su principi di equità e giustizia.

Il fermento critico che iniziò ad aleggiare in Sudafrica, nel corso degli anni ‘60, fu alimentato da due importanti avvenimenti ecclesiali: il primo fu il Concilio Vaticano Secondo (1962-1965), il quale, con un’intensità maggiore che in passato, incoraggiò i prelati ad incentivare e a diffondere, nei vari paesi, uno spirito di giustizia sociale.

Il secondo evento, fu la Geneva Conference on Church and Society, nel 1966, che invitò i cristiani a partecipare direttamente alla lotta per la giustizia in situazioni di oppressione e, contestualmente, creò il Programma per combattere il razzismo. Alla conferenza di Ginevra erano presenti anche il vescovo anglicano Bill Burnett, segretario generale del Christian Institute of Southern Africa, e Beyers Naudé, i quali, tornati in Sudafrica, promossero una serie di incontri per discutere la presa di posizione assunta dalla chiesa.

Da questi dibattiti si originò, nel 1968, il documento The message to the people of South Africa in cui veniva sottolineato il più assoluto rifiuto sia della dottrina di apartheid, sia dei falsi principi religiosi ai quali essa si ispirava.

I cristiani furono così incoraggiati a rifiutare il sistema dello sviluppo separato in quanto immorale.

I contenuti del documento The message to the people of South Africa furono influenzati, da un lato, dal movimento afro-americano per i diritti civili, capeggiato dal Reverendo Martin Luther King, dall’altro, dalla Barmen Declaration, alla quale il Christian Institute of Southern Africa si ispirò.

L’influsso della Barmen Declaration

L’Arcivescovo Desmond Tutu

La Barmen Declaration è un importante documento redatto come dura reazione contro il nazismo.

Seguì il Sinodo tenutosi nel maggio 1934, presso il piccolo borgo tedesco di Barmen.

In quell’occasione, preti e laici si riunirono per opporsi alla politica del partito nazionalsocialista di Hitler volta a nazificare il mondo ecclesiale e, proprio tramite la suddetta Dichiarazione, affermarono la loro critica verso il regime nazista, come pure verso la Weltanschauung proposta da esso, considerata una falsa dottrina.

In relazione al contesto sudafricano, il richiamo alla Barmen Declaration appariva alquanto emblematico, assumendo una posizione che varcava i confini ecclesiali.

Lo sviluppo di questo fervore critico verso l’apartheid, spinse il governo di Pretoria ad intervenire.

Il Christian Institute of Southern Africa fu oggetto di persecuzioni giudiziarie e di atti intimidatori, anche a causa del sostegno finanziario diretto ai Black Community Programmes (BCP), promossi dal Movimento della Consapevolezza Nera, tra i cui esponenti di punta vi era Stephen Biko. Per il tramite della Schlebusch Commission, le attività del Christian Institute of Southern Africa vennero definite politiche e ritenute un pericolo per lo Stato.

Il 19 ottobre 1977, il Christian Institute of Southern Africa venne dichiarato organizzazione fuorilegge, sulla base dell’Internal Security Act.

Ma l’atteggiamento critico verso l’apartheid da parte delle Chiese sudafricane non venne zittito, grazie all’impegno di tanti prelati, a cominciare dal compianto Desmond Tutu, Premio Nobel per la Pace nel 1984.

Silvia C. Turrin

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