Sacralizzata o no, è da tempo che si attribuisce alla violenza armata, di cui le guerre e dunque la morte “sul campo”, uno statuto quasi naturale nel nostro immaginario simbolico. La storia umana, imparata sui libri e commentata dai monumenti, è una storia di guerre.
Siano esse di conquista, di occupazione, di resistenza oppure preventive, ogni volta più sofisticate. Si crede ciecamente che solo l’uso delle armi e del sangue versato possano ottenere la pace. Quanto accade nel Sahel, con questa infinita litania di morti, feriti, sfollati, profughi o rapiti, ne è un’esemplificazione tangibile e misurabile.
Continuare a produrre, vendere, esportare, riciclare armi per fermare la violenza dei gruppi armati (terroristi, jihadisti, banditi, trafficanti e contrabbandieri) non avrà altro risultato che quello di perpetuarne il tragico rituale. Essa si è trasformata col tempo in identitaria, comunitarista, in gruppi di autodifesa o in militari governativi che, spesso, provocano più decessi che i gruppi armati stessi. Questa è la pace delle armi, una pace di sabbia.
P. Pier Luigi, da sempre, ha usato esclusivamente le armi della pace. A 22 mesi dal suo rapimento è bene ricordare le “armi” che aveva importato nell’Africa Occidentale dove si è trovato a realizzare la sua vocazione missionaria. Già in Costa d’Avorio e precisamente a Bondoukou, cittadina ad oltre 400 kilometri dalla capitale economica Abidjan, aveva realizzato un centro di accoglienza per i disabili.
Molte persone e in particolare bimbi e bimbe avevano potuto alzarsi e camminare con dignità dopo essere stati operati alle gambe nell’apposito centro di Bonoua. Li conduceva lui stesso con l’auto, dopo averli accolti, riconosciuti e convinti a rischiare il viaggio per una possibile guarigione. Tornavano a casa camminando, talvolta con le stampelle e, per qualche miracolo, con le loro gambe, destando stupore e imitazione. I bambini prima nascosti per vergogna o timore dai genitori, venivano allo scoperto, certi di essere aiutati.
La stessa arma Pierluigi l’ha portata nel Niger fin dal suo arrivo. L’attenzione ai malati, a chi non aveva cibo e acqua sufficiente per vivere dignitosamente, la priorità di coloro che non interessavano a nessuno perché poveri e contadini perduti nella savana alla frontiera tra il Niger e il Burkina Faso. Cittadini invisibili di un Paese che li considera doppiamenti stranieri perché per buona parte cristiani.
P. Gigi sapeva bene che senza giustizia, libertà, verità e dignità nessun cantiere della pace avrebbe mai potuto vedere la luce. L’opzione per i poveri è stata per lui come una conseguenza della follia evangelica. La “Basilica” di cui andava fiero e che ha probabilmente contribuito a farlo rapire, era la Chiesa che nei poveri trova l’unica ricchezza che le sia consentita. In realtà la sua “arma” della pace erano i poveri.
Ora, in questi 22 mesi di prigionia, è lui stesso, proprio perché indifeso, l’arma della pace più potente che mai poteva portare nel Niger.
P. Mauro Armanino
Niamey, 16 luglio 2020