Il 9 giugno, mentre sono con i compagni d’ordinazione del seminario di Novara sul lago di Mergozzo, ricevo un messaggio dall’amico Gigi Pezzoli. È in Togo nella sua casa di Baguida. Scrive: “Padre Roberto Pazzi, se ne è andato questa mattina. Volevamo andare a trovarlo, ma le sue condizioni non ce l’hanno permesso. Lo hanno seguito fino alla fine le suore ospedaliere svizzere. Per averlo conosciuto so con certezza che era un puro e tormentato”.
Anch’io da anni volevo andare a trovarlo, ma da Kolowaré a Vogan ci sono circa 450 km. Vogan è una piccola cittadina del Togo di un po’ più di mille abitanti, capoluogo della prefettura di Vo nella regione marittima, nella diocesi di Aneho.
E poi per arrivare da p. Pazzi non è facile. Arrivati ad Adidotivi, si prende un sentiero sulla destra in mezzo a due ali di fiori, di buganville, che immette in un viale di palme. Alla fine trovi una stele in pietra con una croce e una scritta: Ermitage atitsoga yayratoa: Eremo della Croce benedetta.
Accanto una capanna in argilla con tetto in paglia da cui esce, come racconta Gaétan Noussouglo, “Un uomo che… uscito dalla sua capanna va incontro ai visitatori che non attendeva… Il sorriso sdentato di questo anziano, non toglie nulla alla luce che abita il suo sguardo. Ci saluta in Ouatchi, la lingua locale. Ci accoglie nella sua capanna in terra rossa, al centro della quale troneggia un tavolo coperto di libri, accanto tre sedie in paglia per accogliere i visitatori, e una stuoia dove dorme.”
Incontriamo così Roberto Pazzi, un missionario comboniano. Arrivato nel 1965 in Togo, non ha più lasciato più questa terra. Dall’inizio si è interessato al patrimonio culturale e alle lingue dei popoli che lo hanno accolto, raccogliendo le loro tradizioni orali. Ha studiatoiIn modo particolare la lingua éwé con un impegno diuturno, anni di fatica e di studio.
Ci ricordava che: “Per noi occidentali oggi, la conoscenza di un linguaggio africano richiede anni di impegno: studiare e praticare la lingua, farsi iniziare al simbolismo delle diverse forme letterarie, interrogare gli anziani circa le tradizioni di cui sono i custodi. Questa iniziazione al linguaggio africano non avviene che attraverso la rinuncia a tante forme esterne della civiltà occidentale, che si sono imposte a noi inconsciamente con la tenacia di un mito.
È duro crocifiggere la propria indipendenza nell’esprimersi, per assimilare una sensibilità diversa, e riconoscere i limiti, spesso angusti, dei nostri criteri scientifici, oggettivi, per apprezzare una cultura dove il pensiero si svolge nel simbolo, e la parola porta una virtù incantatrice”.
Il suo confratello Giulio Albanese ne traccia questo profilo: “Ha subito cominciato a interessarsi al patrimonio culturale autoctono. Introdotto nel campo della lingua, ha potuto progressivamente familiarizzarsi con i suoi diversi dialetti, e a raccogliere le tradizioni ancestrali nei diversi gruppi etnici di tutta l’area culturale della zona sud del Golfo di Guinea, che va dal Ghana alla Nigeria, passando per il Togo e il Benin (ex Dahomey).
Ha percorso in lungo e in largo il territorio, di villaggio in villaggio, per fermarsi in quelli che gli apparivano più significativi. Raccogliendo le fonti orali, p. Roberto Pazzi ha profittato di tanti incontri informali, senza mai registrare nulla o scrivere di fronte ai suoi informatori, salvo poi far ritorno sui luoghi per controllare e completare quanto aveva ritenuto.
Né storico né antropologo né linguista in partenza, Pazzi si è rivelato un ricercatore eccezionale. Viveva ritirato in un eremo nella parrocchia di Vogan, (Sud del Togo), dove ha intensificato il suo lavoro negli ultimi 25 anni. Il frutto di questo lavoro sono vari volumi usciti con le edizioni L’Harmattan.”
P. Silvano Galli