P. Gigi, su invito di volontari e membri di una cooperativa, che operano tutti nel carcere di Cremona, ha avuto un lungo e intenso scambio con loro e i detenuti, ripercorrendo i momenti più intensi della sua prigionia nel deserto del Mali. Il resoconto su Mondo Padano, settimanale di informazione di Cremona.

“Sentirsi liberi, nonostante le catene”. All’altro capo del telefono, padre Gigi Maccalli riassume in poche potentissime parole il messaggio portato venerdì 5 novembre alla Casa circondariale di Cremona.

Durante una delle brevi soste a Madignano (CR), il missionario di Madignano ha fatto tappa a Ca’ del ferro per un momento di scambio con i detenuti e gli operatori. Invitato dalla cooperativa di Bessimo e accompagnato dal dottor Leone Lisè, assistente sociale del Serd dell’Asst di Cremona, ha ripercorso i momenti più intensi della prigionia vissuta nel deserto del Sahel, ostaggio di jihadisti.

Dal 17 settembre 2018 all’8 ottobre 2020. Poco più di due anni, sospesi nell’incertezza, animati dalla fede e dal desiderio di tornare ad abbracciare i propri cari e i tanti «fratelli e sorelle» incontrati lungo il cammino della propria missione. Da qui la decisione di recarsi a Ca’ del Ferro, su invito della Cooperativa di Bessimo e della direzione della Casa circondariale.

È stato un incontro semplice, «tra prigionieri», come l’ha definito padre Gigi. Questo momento di condivisione sarà lo spunto per il libro che i detenuti scriveranno prossimamente, condividendo la propria esperienza e le riflessioni maturate durante la detenzione. Un tempo rarefatto, sospeso tra l’attesa della libertà e il bisogno di raccontarsi, di comunicare, di tornare in contatto con il mondo e prima di tutto con se stessi.

Questo è il grande insegnamento maturato da padre Gigi nel silenzio del deserto e restituito a chi, ieri come oggi, lo accoglie nella propria comunità. L’incontro e la condivisione sono gli strumenti di pace che il missionario offre per mettere fine alla violenza che imperversa, in occidente come nel sud del mondo.

“Disarmiamo la parola ribadisce per disarmare le mani, il cuore, gli sguardi. Per non veder più gli altri come nemici ma come fratelli, come persone”

Durante l’incontro a Ca’ del Ferro, Padre Gigi Maccalli ha mostrato ai detenuti gli appunti scribacchiati durante i giorni trascorsi nel deserto, in una cella a cielo aperto, le caviglie legate da una catena.

Di quella ha conservato un anello di metallo, “l’unico non saldato”, che ha portato con sé “per ricordare il tempo della sofferenza” e rendere tangibile la propria testimonianza.

Ai detenuti lascia una copia di “Catene di libertà”, libro scritto dopo la liberazione e spunto per un confronto a cuore aperto con chi a Ca’ del ferro vive la reclusione. C’è chi ascolta in silenzio, chi fa domande o condivide la propria personale esperienza, fino al momento di salutare il missionario con un abbraccio colmo di gratitudine.

Padre Gigi, come riassumerebbe l’incontro a Ca’ del Ferro?

“E’ stato un incontro molto semplice. Tra prigionieri, potremmo dire. Un momento di condivisione molto significativo. Sarà lo spunto per il libro che i detenuti scriveranno prossimamente, raccontando la propria esperienza e le riflessioni maturate durante la detenzione”.

Quali tematiche avete affrontato?

“La maggior parte della popolazione del carcere circa il 70 per cento è di origine straniera, tra cui diversi ragazzi dell’Africa del nord, che sono intervenuti sulla tematica dell’Islam affrontata nella forma del fanatismo, da cui loro stessi si sono dissociati. È stato spunto di scambio: in Niger il 98 per cento della popolazione è musulmana. Ho vissuto con loro per anni, ma mi rifiuto di leggere il Corano con gli occhi degli jihadisti, che applicano una lettura deviata, distante dal messaggio che l’Islam porta in sé”.

Che reazioni ha ricevuto?

“A fine incontro uno di questi ragazzi è venuto da me e ha chiesto scusa, a nome dell’Islam. Gli ho detto di non preoccuparsi, non mi sento offeso e non giudico la sua fede, ma lui ha voluto comunque esprimere questo pensiero perché l’Islam nasce come religione di pace, pur con tutte le sfumature che porta con sé. Questo gesto ha richiamato alla mente ciò che ho vissuto negli ultimi giorni di prigionia: prima di liberarmi, uno dei mujaheddin mi ha detto “scuasami!”, qualora con qualche gesto o parola mi avesse mancato di rispetto. Nei mesi precedenti mi era capitato di “sgridarli”, dicendo loro che in tutti i miei ventun anni di Africa mai mi era capitato di assistere ad un giovane che alza la propria mano contro un anziano o una persona più adulta. Forse quel giovane ha meditato su queste parole e ha chiesto perdono”.

Quali punti di contatto sono emersi in questo “incontro tra prigionieri”?

“Tutti i presenti hanno sottolineato la propria solidarietà per la prigionia vissuta in catene, senza aver fatto nulla di male. ‘Se siamo qui – hanno detto – è perché abbiamo fatto qualcosa, siamo coscienti della nostra responsabilità e paghiamo per ciò che abbiamo fatto. Tuttavia ci sono aspetti che accomunano le nostre esperienze di prigionia: contare i giorni che non passano mai, trovare il modo di andare avanti…”

Tra i temi affrontati, il perdono.

“Io sono in pace. Non porto odio né rancore. Il mio atteggiamento è sempre stato quello di cercare un altra via alla violenza e alla guerra. Un po’ come i sacchi da boxe, che incassano tutta la forza del boxeur, finché non è estenuato perché ha scaricato tutta la rabbia. Non voglio che la sofferenza mi oltrepassi: soffrire non giustifica il gesto di restituire la violenza con forza uguale e contraria, altrimenti non finiremo mai di perpetrarla. L’essenziale non è lo scontro ma gli incontri: le guerre sono esperienze che ritardano lo sviluppo delle comunità. Per camminare verso un’Africa nuova bisogna aprirsi all’ascolto e fermare tutta questa violenza.”

Pensa di tornare in Africa?

“Al momento vivo il presente, il deserto mi ha insegnato a vivere in profondità ogni istante. Ho il desiderio di tornare per un saluto alla gente che mi ha visto sparire improvvisamente e che non ho più potuto abbracciare da quel giorno fino ad oggi. Magari già quest’anno, un anno dopo il rientro in Italia… Ma mi dicono che là la situazione è peggiorata e c’è molta insicurezza, quindi temo non sarà possibile. Io paziento, e aspetto il giorno in cui questa speranza potrà realizzarsi. Serve saggezza, bisogna attendere e pregare perché ritorni pace nei cuori”.

Ai detenuti ha mostrato alcuni appunti, scritti durante la prigionia nel deserto.

“I primi risalgono al 24 gennaio 2019, diversi mesi dopo il rapimento. A lungo ho chiesto un pezzo di carta, qualcosa che mi permettesse di trascorrere il tempo… I miei carcerieri tra loro parlavano il Tamasheq, un dialetto locale, che era un grande ostacolo per la comunicazione. Uno dei miei rapitori voleva imparare a scrivere i numeri e a contare in francese, così un giorno si è presentato con un pezzo di carta. Metà è rimasto a lui e metà l’ho tenuto per me, per appuntare le prime parole. In un’altra occasione, durante una trasferta verso un altro luogo, ho chiesto ad un mujaheddin di darmi un quadernetto che teneva sul cruscotto dell’auto in cui ero stato caricato. L’ha tagliato e me ne ha dato metà. Così ho iniziato a scrivere ciò che stavo vivendo”.

Come ha fatto a portarli con sé?

“Immaginando che alla fine della prigionia avrebbero preso e bruciato tutto, li ho nascosti nel sottopancia degli abiti, in una tasca interna. Una volta arrivato a casa, li ho ripresi e ho iniziato a mettere ordine: a questo processo ho dedicato i primi tre mesi dopo il rientro in Italia, da gennaio 2021 a Pasqua. Li ho trascritti in buona forma, rispettando però la prima stesura e mantenendo volutamente anche certe insistenze, perché chi è fuori sappia ciò che si vive là dentro. Ho dedicato il libro alla mia famiglia, per dire loro ciò che non ho potuto comunicare durante questi due anni di prigionia. Questo è il mio scopo, pensavo, perché questa memoria possa servire ad altre famiglie di prigionieri o di detenuti, per poter dire loro cosa si prova dall’interno”.

Il suo libro s’intitola “Catene di libertà”: perché questa scelta?

“Suona come un paradosso, ma una persona può essere libera anche in catene. Mentre ero là, guardando i miei piedi incatenati, mi sono detto: il mio cuore non è incatenato. Questa consapevolezza mi ha permesso di andare oltre, con il pensiero e con la preghiera, per continuare a vivere la mia missione in un modo diverso ma con lo spirito libero”.

Oltre agli appunti, quali oggetti è riuscito a conservare?

“Un anello della catena, che ho mostrato anche ai prigionieri di Ca del ferro: l’ho custodito e lo porto con me per ricordare il tempo della sofferenza. Poi avevo costruito un rosario con la stoffa del telo che mi copriva dal sole, che è stato un po’ il mio punto di contato con il mondo e con Dio, e una piccola croce intagliata, mai mostrata a nessuno. L’ho custodita con cura, ora la metterò sugli altari delle messe che farò nei villaggi”.

L’incontro in carcere si è concluso in un abbraccio. Un gesto umano fortemente simbolico…

“Tutti i detenuti si sono fermati a stringermi la mano e ad abbracciarmi, come se ne avessero bisogno. Anche io sono stato consolato dagli abbracci ricevuti dalla mia famiglia, dagli amici e dalle persone che ho incontrato quando si è conclusa questa vicenda. Avevo una sete di abbracci… Me li sono bevuti tutti! Questo è un aspetto che emerge in ogni situazione di reclusione: dove il rapporto umano viene spezzato, l’abbraccio è un punto d’incontro. E’ ciò che mi ha sempre spinto in Africa. L’incontro che non è scontro ma ascolto, condivisione, scambio. Parole che fanno bella la nostra vita. Questa è la missione che perseguiamo: scoprire e ritrovare il nostro essere pienamente umani. È un approccio che va al di là della fede cristiana: guardarsi da uomini, da persone. Questo ci rende fratelli, ci rende umani. E lì non c’è religione né dogma in grado di dividerci”.

Due anni nel deserto: cosa la accompagna in questa rinnovata missione?

“Il deserto mi ha fatto tre grandi regali: il primo è la forte comunione con le vittime innocenti e con la sofferenza. Il secondo è la riscoperta dell’essenziale, che è la relazione: la sofferenza più grande non è stata dormire per terra e all’aperto, non potermi lavare per giorni o bere acqua al sapore di benzina nutrendomi di ciò che mi veniva dato. L’essenziale era il contatto, la comunicazione, la cui assenza è stata la cosa più dura. Infine, il grande silenzio. Fuori e dentro di me. Nel silenzio si scopre una parola creatrice. Anche il volto di Dio è sempre annunciato: la parola di Dio, la lieta notizia…Ma nel deserto mi si è rivelata un’altra dimensione di Dio, che è il silenzio. Come un grembo materno che si dilata per fare spazio alla vita, perché dentro sé cresca una parola. Nel silenzio del deserto ho scritto alcune parole e poi le ho messe nero su bianco. Un libro non si legge solo nelle parole, ma anche tra le righe, dove gli spazi vuoti lasciano spazio a un dialogo eterno”.

Che messaggio porta alla società in cui oggi è tornato a vivere?

“Disarmiamo la parola. Lo dico soprattutto ai giovani: la parola ferisce, arma le mani. La parola uccide. Oggi ci stupiamo di leggere notizie di femminicidio e di tanta violenza, ma spesso basta ascoltare un dibattito di politica o un evento sportivo per imbattersi in parole violente che non lasciano parlare. Io non ho subito maltrattamenti fisici, catene a parte, ma ho ricevuto parole come schiaffi, insulti che fanno male. Ora che sono libero, penso che il mio compito sia liberare quella parola di perdono e accogliere chi sta vivendo una forte esperienza, qualsiasi essa sia. Disarmiamo la parola per disarmare le mani, il cuore, gli sguardi, per non vedere più gli altri come nemici ma come fratelli, come persone. È solo una piccola indicazione, senza la presunzione di insegnare nulla nessuno. Lo dico per me stesso e per l’impegno che porto: quello di essere parola che ascolta, che consiglia, che consola. Una parola che è vicina e si fa prossima, con grande umiltà.”

di Lidia Gallanti
Mondo Padano, Il Settimanale di Cremona e del territorio, del 12/11/2021