P. Gigi ci parla dei tre mesi passati a Modica, in una casa di missionari che sono a servizio dei migranti. Ci confida quello che ha significato per lui questa pausa che si è presa: non pretendere di risolvere i problemi, ma “esserci”. E ci racconta la sua amicizia con Saidu, migrante della Sierra Leone.

Ho passato da 3 mesi in Sicilia per ascoltare, vedere e toccare con mano una realtà che interpella tutti. La sfida della migrazione è uno dei segni dei tempi di una umanità in cammino, in cerca di futuro e di pace. La guerra in Ucraina ci smuove alla solidarietà per dare accoglienza a popolazioni in fuga dalla guerra.

Ma molte altre sono le guerre dimenticate dai mass-media che provocano l’esodo di persone e di giovani da conflitti armati e da carestie ricorrenti che tarpano le ali, alle nuove generazioni in particolare, per sperare un avvenire di vita.

Ho scelto di fare sosta su questa frontiera, non per dare risposte esaurienti, ma esserci come presenza di preghiera e di condivisione di vita. Questa terra lambita dal Mare Mediterraneo che per molti è diventato il cimitero dei loro sogni e queste sponde agognate come approdo di speranza, mi è sembrato il luogo teologico in cui stare per scrutare questa nostra attualità.

Molti giovani africani sfidano il deserto, un numero imprecisato perisce nella sua traversata, altri lo l’hanno oltrepassato a caro prezzo e poi c’è anche chi si è imbattuto nelle prigioni libiche e umiliazioni annesse …

Attraverso questo roveto ardente Dio parla: “Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido. Conosco le sue sofferenze e sono sceso per liberarlo” (Es. 3, 7-8).

Non potendo tornare, per il momento, sulla sponda del Sahel africano in Niger, ho pensato di fare tappa in questa attesa, sulla sponda del Sahel italiano.

Sahel significa nella lingua araba ‘riva’ e denota la fine del deserto di sabbia che le carovane attraversavano nei tempi passati a dorso di dromedari. Nel sahel rinasce la vita e il verde di ciuffi d’erba e di alberi rarefatti.

Considero la Sicilia l’altra sponda dell’oceano di sabbia che unisce il Sahara e il mare ‘nostrum’. Sulle sponde sicule sbarcano le speranze di giovani coraggiosi che sperano vedere fiorire il loro futuro lavorativo e una vita nuova.

Ho vissuto in Africa per 23 anni e sono sempre stato accolto e ospitato come uno di loro. Essere oggi per loro casa ospitale lo credo un dovere di restituzione e di umanità.

Sono stato ospite della comunità missionaria inter-congregazionale creata a Modica nel 2016 dalla volontà dei responsabili di tutte le comunità missionarie italiane femminili e maschili che fanno capo alla C.I.M.I. (Conferenza degli Istituti Missionari Italiani).

In virtù del nostro specifico carisma “ad Gentes”, che ci ha fatti andare ai lontani, agli ultimi, agli emarginati e forti della nostra esperienza di missionari “nel mondo” si è pensato di offrire alla chiesa italiana un segno di missione presso gli ‘stranieri’. La Sicilia è stata scelta perché luogo di sbarchi e di consolidate comunità di immigrati.

La realtà della migrazione è oggetto di dibattici politici e pregiudizi che spesso dimenticano i drammi personali e comunitari e non facilitano il processo di accoglienza e di integrazione. Fare ponte tra le culture è la vocazione di noi missionari, non semplicemente come mediatori culturali ma come persone che hanno vissuto in mezzo ai popoli e condiviso con loro le gioie e i dolori, le fatiche e le speranze di un mondo nuovo che sappia conciliare l’armonia delle differenze.

La comunità di Modica (RG) è una famiglia internazionale con suor Rachele argentina e missionaria della Consolata, suor Dorina comboniana e p. Ottavio, pure dei comboniani. E poi è ospite Gladys, giovane ragazza del Kenya e due giovani ventenni, Hassan della Tunisia e Saidu della Sierra Leone.

Le loro storie e vicissitudini raccontano di un viaggio personale lungo e sofferto che richiede tanta cura e compassione. Posso con loro condividere la mia storia di fratello in umanità che è stata pure marcata dal deserto e dalla prigionia e sa comprendere da dentro il travaglio di domande e dubbi che agitano il loro cuore e la loro vita.

Esserci è ascoltare, vedere e toccare questa umanità ferita e umiliata. Saidu inizia la sua odissea dalla Sierra Leone (Africa Occidentale, dove fu sepolto il Fondatore della SMA insieme ai primi missionari SMA morti per febbre gialla).

È ancora minorenne quando se ne va e arriva in Italia poco prima di compiere 18 anni. Attraversa frontiere e deserto. Fermato in Mali da trafficanti umani è sequestrato per mesi. Non ha una famiglia da chiamare al telefono per farsi mandare soldi e pagare un riscatto. Subisce percosse e poi è venduto a un capo, forse tuareg, che gli promette di continuare il viaggio in Libia ma deve ‘pagare col lavoro’ la sua benevolenza.

È portato ad Agadès in Niger dove lavora per diversi mesi alle sue dipendenze con la sola assicurazione del cibo. Infine arriva in Libia dove è tenuto rinchiuso dai ‘passeurs’ (=trafficanti di persone) in una casa isolata per 2 mesi con altri migranti in attesa di essere messo su un barcone. Hanno come cibo solo pane e latte.

Evade per procurare da mangiare al gruppo. Vista la sua intraprendenza e scaltrezza lo obbligano a imparare in 6 giorni a maneggiare il vecchio motore di una barca che dovrà ‘guidare’…non ha scelta. Di notte iniziano il viaggio in mare, il motore si rompe al largo e imbarcano acqua. Ricorda bene quelle 13 ore di mare e di panico e poi l’arrivo di una nave che li ha soccorsi quando ormai disperavano.

Gli occhi impauriti dei compagni di viaggio si sono trasformati in gratitudine per essere riuscito a non farli naufragare. In porto è indicato come ‘colui che era alla guida’ del barcone che in italiano si traduce per ‘scafista’ ed è incarcerato e poi affidato ad un centro per minori.

In attesa di giudizio beneficia di un permesso di soggiorno e fa diversi lavori occasionali cambiando di località e lo scorso anno trova ospitalità presso questa comunità missionaria. Dopo 4 anni (oggi ha 22 anni) è chiamato a processo. L’ho accompagnato io stesso il 23 marzo scorso in tribunale a Catania e per sua fortuna ha ottenuto dal giudice dei minori una messa alla prova (impegnarsi nel lavoro e andare a scuola).

Il suo avvocato mi diceva che essendo l’accusa di essere scafista un reato grave per la legge italiana, se andasse a processo rischierebbe una pena di 15 anni di prigione… gratis aggiungo io! L’incubo del viaggio per molti non finisce con lo sbarco.

Tanti si trovano a lottare contro incomprensioni e pregiudizi che ostacolano l’affitto di una casa necessario per avere il permesso di soggiorno e quest’ultimo è indispensabile per poter sperare in un contratto regolare di manovalanza.

C’è anche in agguato gente senza scrupolo che è pronta a sfruttare questa manodopera per lavori stagionali sottopagati e chi propone loro di fare soldi facili con la droga o altri mezzi illeciti.

Esserci è stare in mezzo al guado di una sfida che ci interpella in umanità innanzitutto. E a chi grida a sproposito sui migranti senza conoscerne le storie, i volti e i loro nomi rispondo: ‘prima la persona umana perché siamo tutti fratelli’.

P. Gigi Maccalli