Arrivato da più di un anno in Centrafrica, p. Davide Camorani traccia un primo bilancio della sua vita di missionario tra i Pigmei di Monasao.

Una volta, a qualcuno che mi chiedeva se mi sentissi più infermiere o più musicista, avevo risposto – scherzando, ma non troppo – che sono un musicista intrappolato nel corpo di un infermiere…

Adesso sono musicista, infermiere e prete, in un unico corpo, in cui questi tre aspetti della mia persona si possono fondere armoniosamente.

Tra lavoro missionario e sanitario

La vita mi ha preparato a qualcosa di diverso, grazie a quegli anni “persi” in cui ho appreso una professione, delle conoscenze e delle competenze che, come prete, posso sfruttare in maniera un po’ “alternativa”.

Nella parrocchia di Monasao, dove mi trovo, in mezzo ai Pigmei (che qui si chiamano Bayaka) ci sono tante strutture, grazie al lavoro di chi era già qui prima di me. Una delle più importanti è sicuramente l’ospedale.

Il nostro piccolo ospedale territoriale è diventato di mia responsabilità. Grazie al mio titolo di studio è potuto crescere di livello, passando da “Poste de Santé” a “Centre de Santé”, per la presenza, come dicono qui, di personale qualificato (cioè laureato).

Il lavoro sanitario occupa una gran fetta del mio tempo. Il primo ruolo è amministrativo e gestionale, un misto fra un caposala e un direttore di presidio; in questo senso, il mio impegno è volto soprattutto a migliorare la qualità del servizio, creando strumenti, organizzando il lavoro, responsabilizzando il personale perché impari a lavorare con ordine e metodo. Tutte cose che, nella nostra formazione infermieristica, ci sono state inculcate fin da subito e che sono entrate a far parte, non solo del mio modo di lavorare, ma anche del mio modo di pensare.

L’altro aspetto è quello della cura e dell’assistenza dirette. Un po’ medico e un po’ infermiere…

Qualcuno, probabilmente rabbrividisce sentendo che faccio il quasi-medico, ma qui funziona così: il medico è una bestia rara che si trova solo negli ospedali più grandi; la cura (quindi anche diagnosi e conseguente prescrizione) è affidata a personale sommariamente formato e, in qualche caso più fortunato, ad un infermiere diplomato, che è già tanto per lo standard del paese.

Questa è la parte più significativa del mio lavoro, quella che mi mette a contatto quotidiano con la gente e che mi permette anche di accompagnare il personale più da vicino, non impartendo ordini ma lavorando al loro fianco.

Essere l’amore, la carità

Qui riesco a essere prete anche se non sono un trascinatore di folle o un fine oratore (tanto più che lo scoglio della lingua è ancora ben presente). Qui, nel mio piccolo, modesto, ma dignitoso ospedale di villaggio, la cura del corpo e la cura dell’anima si fondono.

Questo pomeriggio preparavo l’omelia per la messa e leggevo quel passo famoso della “Storia di un’animadi Santa Teresina del Bambin Gesù, in cui dice di non riuscire a trovare il proprio posto nella Chiesa perché non si sente né apostolo, né profeta, né operatrice di miracoli… alla fine scopre che il suo ruolo, la sua vocazione, è quella di essere l’amore o, come la chiama s. Paolo, la carità. È per questo che Teresa, monaca di clausura, è stata scelta come patrona delle missioni…

In qualche modo mi sono un po’ ritrovato nell’attitudine di S. Teresa: stando qui ho scoperto, dopo tante domande su cosa avrei fatto e cosa sarei diventato, che il segreto sta nello svolgere il proprio lavoro con amore, cioè, facendo attenzione alla persona e non solo alla malattia. Pensando che il mio lavoro può offrire un piccolo aiuto a questo popolo così prostrato.

Se qualcuno mi dicesse che fare l’infermiere non è un lavoro da prete, che non è vera pastorale, io gli risponderei: “Vieni e vedi”.

P. Davide Camorani

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