Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria, un giorno all’anno per ricordare l’orrore della Shoa.

Rose Zwi (1928-2018) è stata una scrittrice dalle profonde radici ebraiche e dalle molteplici culture: ebraico-lituanasudafricana-messicana-australiana, ha passato gran parte della sua vita come attivista anti-apartheid.

È soprattutto nota per il suo lavoro sugli immigrati.

Nata a Oaxaca, in Messico, da profughi ebrei ashkenaziti fuggiti dalla Lituania negli anni Venti, si è trasferita molto giovane con la sua famiglia in Sudafrica. Si è poi laureata in letteratura inglese all’Università di Witwatersrand a Johannesburg.

Ha trascorso la maggior parte della sua vita in Sudafrica e ha vissuto brevemente in Israele e a Londra. Infine, nel 1988, si è trasferita in Australia, acquisendone la cittadinanza.

Soltanto nel 2006, ha visitato la città natale dei suoi genitori, Žagarė.

Per diversi anni ha lavorato come editrice letteraria presso la Ravan press a Johannesburg ed è stata un membro attivo di Black Sash, un’organizzazione per i diritti civili.

Ha vinto numerosi premi per i suoi lavori, tra cui lo Human rights award nel 1994 per il suo romanzo Safe Houses e l’Olive Schreiner award per Another year in Africa, l’unico romanzo tradotto in italiano con il titolo Un altro anno in Africa (Edizioni Lavoro, 1995). Last walk in Naryshkin park è stato selezionato per il NSW premier’s history award e Speak the truth, laughing per lo Steele Rudd award come miglior libro di racconti del 2003.

Tutti i suoi libri sono stati pubblicati dalla casa editrice Spinifex press, una casa editrice femminista, indipendente e pluripremiata.

La sua cultura ha profonde radici ebraiche ed europee e i suoi racconti si concentrano sulla diaspora ashkenazita nel paese dell’apartheid.

Un altro anno in Africa, un romanzo avvincente

Il racconto è ambientato negli anni Trenta nel veld sudafricano, ai bordi delle miniere d’oro alla periferia di Johannesburg. Qui si muovono i protagonisti, Berka, Yenta, Dovid, Gittel e la piccola Ruth, tre generazioni di profughi lituani, rappresentanti della diaspora ebraica sudafricana.

Al Museo della diaspora di Tel Aviv alcuni plastici illustrano, insieme allo sparpagliamento degli ebrei ai quattro angoli del mondo, le diverse forme che i loro luoghi di studio e di preghiera sono andati assumendo nei vari paesi in conseguenza degli influssi culturali specifici in ciascuna situazione.

Quei plastici, in molti casi, memoria di un immenso patrimonio distrutto per sempre, raccontano talvolta di distanze impensate, geografiche e di cultura : e avevo pensato che il modellino della sinagoga cinese fosse, in questo senso, il punto più remoto che si potesse immaginare. Ma ora dopo essermi chiesta quanto lontana e diversa potesse essere la sinagoga sudafricana di Rose Zwi, mi accorgo di quanto poco senso abbiano interrogativi di questo genere
(dall’introduzione di Clara Sereni, p. VII).

A cura di Maria Ludovica Piombino

Biblioteca africana Borghero