Il 2 agosto del 1997 spirava Fela “Anikulapo” Kuti, noto ai più come il “padre” dell’afrobeat, ma il presidente nero non è stato solo un grande musicista e polistrumentista: ha dato voce ai più poveri della sua terra, la Nigeria, e ha denunciato nei testi delle sue canzoni corruzione, soprusi e ingiustizie sociali. Lo ricordiamo oggi, anniversario della sua morte.

La famiglia Ransome Kuti nel 1940. Fela è il bambino in basso tra i genitori, alle loro spalle Dolu, in braccio alla madre Beko e accanto a destra Olikoye

Tra le figure musicali simbolo dell’impegno socio-politico e del panafricanismo, Fela Kuti rimane uno dei personaggi più amati e celebrati, non solo nella sua terra natale, la Nigeria.

Padre dell’afrobeat e polistrumentista, questo artista ha varcato confini sonori, entrando nei meandri della vita dei dimenticati dell’Africa, dei più poveri e sfruttati. Chiamato “Black President”, Fela Kuti nacque il 15 ottobre 1938 ad Abeokuta, nell’attuale stato di Ogun, e morì il 2 agosto 1997, a Lagos.

Influenzato dall’impegno sociale della madre, Funmilayo Ransome-Kuti ( insegnante e attivista contro il colonialismo britannico (che meriterebbe un articolo dedicato interamente a lei), il “presidente nero” dimostrò sin da giovane la sua essenza ribelle e anti-conformista. Anziché studiare medicina come i fratelli, a Londra si immerse con passione nello studio della musica.

Ispirato dall’highlife, ma anche dal jazz di Miles Davis e di Charlie Parker, agli inizi degli anni ’60 del ’900 Fela Kuti creò un genere nuovo, che ancora oggi influenza svariati musicisti: l’afrobeat. Questo genere si rivela un linguaggio di protesta e di denuncia contro le ingiustizie.

Non è un caso che l’afrobeat di Fela si ispiri anche alla musica tradizionale Yoruba e sempre in Yoruba scrive vari testi delle sue canzoni.

A ciò si aggiungono testi di brani redatti in un idioma particolare, il pidgin, frutto della combinazione dell’inglese con un dialetto regionale nigeriano. L’intento di Fela Kuti è quello di comunicare al maggior numero di africani, anche coloro i quali vivono ai margini e nell’indigenza.

Quelli di Fela sono testi impegnati, sviscerati a un ritmo che – in controtendenza rispetto alle parole – esprime forza, esuberanza, vitalità, dinamicità.

Il periodo dei Settanta è scandito da brani che criticano, più o meno apertamente, i governi militari e politici non solo africani,  che abusano del loro potere a danno della povera gente. La voce di Fela Kuti non si ferma davanti a soprusi e illegalità. Egli ha messo in musica la quotidianità di chi si trova ai livelli più bassi della scala sociale.

«Se vedo la verità la dico
E  tu non puoi zittirmi

Lasciami dire la mia

Non puoi chiudermi la bocca

La verità è amara

Il mondo la odia

Che ti piaccia o no

Dirò la mia

Puoi imprigionarmi

Ma non puoi tapparmi la bocca»

Questo è un estratto della canzone “Je’Nwi Temi”, che significa “non imbavagliarmi”, in cui Fela rivela la sua volontà nel contrastare e denunciare le ingiustizie sociali. “Alagbon”, uscita tra il ’74-’75, è una chiara accusa della violazione dei diritti umani.

Alcuni dei tanti dischi realizzati da Fela Kuti

Per i suoi testi e per il suo impegno politico, Fela Kuti è stato più volte perseguitato dai militari e dalla polizia. Addirittura nel 1977 è stato prelevato dalla sua abitazione da centinaia di militari che appiccarono il fuoco alla casa e ferirono gravemente i suoi familiari: la madre Funmilayo Ransome-Kuti morì per le ferite riportate.

Fela Kuti non si è però mai lasciato intimidire. Ispirato dall’idea di un’unità africana e dal movimento afroamericano del Black Power, egli volle ritornare in qualche modo ai linguaggi delle tradizioni africane, disdegnando tutto ciò che deriva dalla cultura colonialista.

«Ci hanno sottratto la nostra cultura

Dandocene un’altra che noi non comprendiamo

Noi Neri non sappiamo chi siamo

Non conosciamo la nostra eredità ancestrale

[…] dobbiamo stare insieme, uniti»

In queste parole si ritrova il suo pensiero panafricanista, rivolto all’unità del continente africano per bloccare definitivamente l’imperialismo occidentale e le continue interferenze delle multinazionali straniere.

Al di là degli eccessi (che non stupiscono considerata la sua visione, ma anche il contesto e il periodo in cui visse Fela Kuti), si può dire che il padre dell’afrobeat ha saputo parlare davvero a milioni e milioni di africani.

Il 2 agosto 1997 esalò il suo ultimo sospiro, ma la sua voce continua ad accompagnare tantissime persone in tutto il mondo, tanto che ancora oggi fa parlare di sé.

La sua eredità è portata avanti non soltanto dai figli Sean e Femi, ma anche da tanti artisti di differente nazionalità ed estrazione, come la cantante afroamericana Erykah Badu o la cantautrice nigeriana Nneka.

Persino in Italia è ricordato, tanto che proprio nel 2024 è uscito il film di Daniele VicariFela, il mio dio vivente”, programmato anche all’interno della 33ᵃ edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina.

Silvia C. Turrin