La 29ᵃ conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 29) si è conclusa a Baku, in Azerbaijan, senza raggiungere concrete, tangibili misure per affrontare seriamente la crisi climatica.

Infatti, se si  eccettua lo stanziamento di un finanziamento per il clima di 300 miliardi di dollari da destinare ai Paesi in via di sviluppo entro il 2035 (una data lontanissima per i reali pericoli legati al riscaldamento globale), altre decisioni incisive non sono affatto emerse.

Così come era accaduto per la precedente COP 28 tenutasi a Dubai (Emirati arabi uniti), anche in questo meeting  a Baku i delegati non hanno avuto il coraggio di bandire i combustibili fossili entro una data precisa.

Come ha affermato Jasper Inventor, a capo della delegazione di Greenpeace alla COP 29:

“I nostri veri avversari sono i mercanti di combustibili fossili della disperazione e gli spericolati distruttori della natura che si nascondono comodamente dietro le basse ambizioni climatiche di ogni governo. I loro lobbisti devono essere esclusi e i leader devono trovare il coraggio di stare dalla parte giusta della storia”.

In effetti, come hanno notato vari analisti attenti alle questioni ambientali e climatiche, le riunioni alla COP 29 hanno visto la partecipazione attiva di molti lobbisti legati a realtà che traggono ancora enormi profitti dall’uso dei combustibili fossili (petrolio e gas).

In particolare, questa inopportuna e deviante presenza è documentata da un rapporto della Kick Polluters Out Coalition,  che rivela come alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite di Baku vi abbiano partecipato ben 1.770 lobbisti. Non stupisce quindi l’accordo finale al ribasso della COP29.

E l’Africa in tutto questo rimane in balia degli effetti disastrosi della crisi climatica e dell’aumento delle temperature globali.

Desertificazione e siccità in molte zone dell’Africa si sono acuite a causa del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici

I negoziatori africani al meeting avevano espresso richieste specifiche, a cominciare da un finanziamento annuale di circa 1,3 trilioni di dollari da qui al 2030, per aiutare il continente ad affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici e per promuovere la transizione ecologica.

Come si è visto, questa richiesta non è stata accolta proprio da coloro che sono stati, in modo incontrovertibile, i maggiori produttori dei famigerati gas serra (anidride carbonica in testa) a cui si deve l’aumento delle temperature globali sul pianeta.

Il global warming viene minimizzato o frainteso ancora da troppe persone (per mancanza di conoscenza o per interesse).

Per capirne la pericolosità c’è un dato su cui riflettere. Un dato mai emerso nei secoli e millenni fa ed è questo: nell’arco di soli 100 anni, si è verificato un incremento dell’ 1,2° delle temperature globali. Un incremento di tale portata non si era mai avuto in tempi così ristretti.

Ciò si collega a un altro dato preoccupante diffuso dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO): la concentrazione di anidride carbonica (Co2) nell’atmosfera è arrivata, nel 2023, al livello di 420 parti per milione (ppm). Mai avuto così tanta Co2 come ai nostri giorni.

Maggiori livelli di anidride carbonica (e di altri gas e sostanze inquinanti) creano quello che viene chiamato “effetto serra”, che a sua volta crea le condizioni per un aumento delle temperature del pianeta.

È evidente che sono i processi di industrializzazione e l’uso delle energie fossili a determinare l’aumento di Co2.

E chi sono stati e sono i maggiori Paesi inquinanti?

Nella lista non troviamo nessun paese del continente africano. Se in passato erano Stati Uniti, Russia e Paesi europei i responsabili dell’inquinamento globale, oggi ai primi posti troviamo la Cina, seguita a ruota sempre dagli Stati Uniti, dai Paesi dell’Unione Europea, poi da India, Russia e Giappone. Queste sono le economie che emettono più CO2 al mondo.

In questo quadro l’Africa, sebbene meno responsabile delle emissioni globali essendo meno industrializzata, soffre maggiormente dell’impatto dei cambiamenti climatici.  

La richiesta di maggiore giustizia climatica e di abbandono dell’economia basata sui combustibili fossili

La Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite (ECA) ha ricordato in occasione della conferenza di Baku che il continente perde in media il 5% del PIL ogni anno a causa dei cambiamenti climatici.

Terribili alluvioni (come quelle che hanno colpito di recente il Ciad e l’Etiopia) hanno provocato gravi crisi umanitarie. E l’altra faccia del problema sono siccità e carestie (come nel Corno d’Africa, in Zambia e nello Zimbabwe) causate dall’assenza di pioggia.

Come sappiamo, sono sempre i più poveri e indifesi a subire le conseguenze dei cambiamenti climatici e del global warming.

Mentre i Paesi del cosiddetto Nord del mondo – più avanzati almeno da una prospettiva economica e finanziaria – non riescono a dare la priorità alla giustizia climatica facendo pendere la bilancia sempre verso i profitti generati dall’industria, i Paesi del Sud del mondo subiscono l’impatto della indiscutibile crisi climatica in atto.

Come ci ricorda Papa Francesco nei suoi messaggi e nei suoi scritti, tra cui l’Esortazione Apostolica “Laudate Deum” e la Lettera Enciclica “Laudato Si”.

“Di fronte a un’emergenza climatica, dobbiamo prendere opportuni provvedimenti, per poter evitare di commettere una grave ingiustizia nei confronti dei poveri e delle future generazioni”.

Ciò che è mancato a Baku e ciò che manca nei vari meeting riguardanti le decisioni da prendere in merito a questo tema sono la lungimiranza, una visione ampia della questione e l’amore e il rispetto per chi verrà dopo di noi.

Vedremo se la prossima Cop 30 del 2025, che si terrà a Belem, in Brasile, nell’area amazzonica, potrà diventare finalmente un punto di svolta a beneficio dell’Africa, di tutto il pianeta nel suo insieme, della nostra Casa Comune.

Silvia C. Turrin

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