Il Mozambico, antica colonia portoghese, conta un buon numero di musulmani: il 18% della sua popolazione. La maggior parte sono concentrati nelle province del Nord, al confine con la Tanzania, dove la percentuale sale al 58%. Da sempre aderiscono al sufismo, un islam moderato e dialogante.

Ma alcuni anni fa nella Provincia di Cabo Delgado fece la sua comparsa una setta religiosa che si denominò “Ahlu Sunnah wal Jamaa”, che significa “gli adepti della tradizione del profeta”.

Capo Delgado è legata all’Italia perché al largo delle sue coste vi opera l’ENI, che nel 2011 ha scoperto degli immensi giacimenti di gas.

Di Ahlu Sunnah wal Jamaa i media hanno cominciato ad occuparsi nell’ottobre 2017, quando ha cominciato a lanciare molteplici attacchi, e in particolare in prossimità delle due città più interessate al boom dell’estrazione del gas: Moçimboa da Praia e Palma. Da ottobre dell’anno scorso ad oggi, almeno 50 persone sono state uccise in una ventina di attacchi. Il più spettacolare è quello del 27 maggio scorso: almeno 10 persone sono state decapitate con il machete e decine di case bruciate nel villaggio di Monjabe, nel distretto di Macomia.

Un’equipe di tre studiosi mozambicani hanno recentemente pubblicato un rapporto su questa setta islamica, frutto di una ricerca sul campo durata 4 mesi, tentando di interpretare il significato di questi ripetuti attacchi. Si tratta di João Pereira, professore all’Università Mondlane di Maputo, Salvador Forquilha, direttore dell’Istituto di Studi Economico-Sociali, e Sheikh Saide Habibo, religioso islamico. Il sito del think-tank sudafricano Institute for Security Studies (ISS) vi ha avuto accesso. Essi confermano che Ahlu Sunnah wal Jamaa da setta religiosa è evoluta in gruppo terroristico, secondo il cammino già percorso dal nigeriano Boko Haram.

I membri della setta aderiscono a un islam radicale, di tipo sunnita-wahabita, e accusano i loro conterranei di non praticare il vero islam. Si rifiutano di inviare i loro figli a scuola, hanno le teste rasate, portano lunghe barbe e vistosi turbanti bianchi. I suoi leader, che si sono formati in Sudan e in Arabia, hanno legami con circoli religiosi di gruppi islamisti radicali di Somalia, Kenya, Tanzania, e sono coinvolti nelle loro attività commerciali e militari”, denunciano i tre studiosi. Si fanno ritrarre con armi bianche, per simboleggiare la loro adesione alla jihad. Sono stimati tra i 500 e 1500, e sarebbero organizzati in decine di cellule. Appartengono all’etnia minoritaria Kimwani, poco considerata dai capi politici e militari del paese che sono di etnia Maconde.

Reclutati tra i disoccupati e gli emarginati della società, i suoi membri sono addestrati in loco, spesso da ex-ufficiali della Polizia, o nella vicina Tanzania, da miliziani provenienti dal gruppo jihadista somalo al-Shebaab. Si autofinanziano per mezzo del traffico di legno, carbone, avorio, rubini.

Il rapporto mette in questione il modo in cui il governo ha fin qui reagito agli attacchi di Ahlu Sunnah wal Jamaa: eseguendo degli arresti indiscriminati e chiudendo molte moschee e scuole coraniche il governo si sta alienando l’appoggio della popolazione. Invece dovrebbe riconoscere le vere cause del problema che sono il ritardo economico e sociale delle regioni del nord, gli esigui investimenti realizzati dallo stato, e il timore di essere colonizzati dalle imprese petrolifere straniere che sfruttano i giacimenti di gas.

Dovrebbe inoltre prendersi a carico la sorte di decine di migliaia di sfollati, che fuggono i villaggi per timore di attacchi.

Suggeriamo la lettura di uno studio del PNUD (Programma per lo Sviluppo dell’Onu): Journey To Extremism

P. Marco Prada