Nell’ottobre 2017 l’opinione pubblica americana è rimasta colpita dalla notizia dell’uccisione di 4 suoi soldati durante un’operazione militare di Africom in Niger. Fino ad allora il Pentagono aveva negato la presenza di militari in quel Paese del Sahel.

Alcuni mesi dopo, nel marzo 2018, il responsabile di Africom (Comando degli Stati Uniti in Africa), generale T. Waldhauser, in una audizione al Congresso Americano ha comunicato parecchi dettagli sulla presenza militare USA nel continente. Creato 10 anni fa, Africom impiega attualmente 7.200 persone, tra civili e militari, nelle varie missioni in Africa.

Waldhauser ha richiamato lo schema che guida il Comando: By, With e Through. Le operazioni che vedono coinvolti gli americani, devono essere dirette da personale africano, con l’assistenza americana, per mezzo di una cooperazione delle due forze.

AFJN ha avuto accesso al testo completo dell’audizione del Generale, e nel suo sito traccia un quadro della presenza militare americana in Africa, aggiornata al 2018. AFJN (Africa Faith and Justice Network, Rete “Fede e Giustizia” per l’Africa) è un’organizzazione americana, fondata da alcuni istituti missionari, tra cui la SMA, composta da attivisti ed esperti, che vigila sui rapporti che gli Stati Uniti intrattegono con l’Africa. Fa attività di informazione, denuncia, pressione sui politici, studio, su argomenti quali le missioni di pace, i diritti umani, la giustizia sociale. Intende difendere gli interessi dei popoli africani più poveri e emarginati, e si batte per un commercio più equo, uno sviluppo sostenibile per l’ambiente, la fine dei confitti armati nel continente.

 

Percorriamo il rapporto di AFJN, segnalando là dove la presenza militare americana è più significativa.

Il Sahel è certamente strategico: oltre a Al Qaeda e Boko Haram, qui sono attivi anche altri gruppi jihadisti affiliati allo Stato Islamico. Gli Stati Uniti sono partner di Sahel 5, lo strumento di cooperazione militare “a guida africana, con assistenza francese e supporto americano”, come lo descrive Waldhauser. Esso comprende 5 paesi: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger; ha come scopo di contrastare ed eliminare l’estremismo violento dall’intera regione. Ci sarebbero più di 1.000 americani nel Sahel. Gli Stati Uniti hanno più volte ribadito che lo scopo di questo contingente non è di combattere, ma “consigliare, assistere e addestrare le forze armate africane”. Ma la morte dei 4 militari in Niger contraddice questa affermazione.

 

C’è un alone di segretezza su questa presenza. È quasi certo che solo in Niger gli americani sono 800, e che è in questo paese, nell’aeroporto di Agadez, che è dispiegato un buon numero dei droni di Africom.

Gli altri paesi della regione del Sahel non sono considerati altrettanto importanti, e non ricevono la stessa attenzione del Niger.

Nessun aiuto è fornito al Mali, né al Burkina Faso, benché Waldhauser abbia fatto notare che quest’ultimo è stato oggetto di due attentati nel 2018. Più interesse sembra ricevere il Ciad: gli Usa, impressionati dalle capacità dei soldati ciadiani, starebbero aumentando il loro appoggio logistico, per aiutare il Paese nella sua lotta contro Boko Haram e Isis, ma non è stato menzionato un numero esplicito di truppe, né la portata dell’attività militare. Concretamente, l’esercito statunitense fornisce intelligence, sorveglianza aerea delle frontiere, addestramento di soldati e equipaggiamento dell’esercito nazionale con veicoli corazzati leggeri.

 

In Africa Occidentale l’impegno americano si concentra anche sulla Multinational Joint Task Force: forza militare internazionale, composta da soldati provenienti da Benin, Camerun, Ciad, Niger e Nigeria, che opera nei territori che bagnano il lago Ciad, creata per contrastare Boko Haram. Anche in questo caso gli Usa forniscono consulenti, intelligence, addestramento e attrezzature, senza coinvolgersi in operazioni militari dirette.

La Nigeria è citata esplicitamente nella relazione del capo di Africom. Pur  astenendosi dal precisare l’entità della presenza e il tipo di operazioni, Waldhauser sottolinea che questo Paese è un obiettivo chiave per gli Stati Uniti: è la prima economia del continente e le sue risorse petrolifere sono vitali per l’economia americana.

 

In Africa Orientale la presenza americana non suscita sorprese. A Gibuti opera l’unica base militare permanente degli Stati Uniti in Africa, strategica per la sua vicinanza al Golfo di Aden e alla penisola araba, per il controllo sulle rotte del Canale di Suez e sui paesi del Corno d’Africa. A Gibuti stazionano circa 2.000 americani, un quarto del totale del continente.

 

Da Gibuti l’osservato speciale è la Somalia. Gli americani non hanno ancora dimenticato la strage di Black Hawk Down del 1993, che fece ritirare il loro contingente. Gli aerei e i droni americani hanno compiuto non pochi attacchi contro postazioni di Al-Shebaab, il gruppo terrorista islamico somalo, ancora forte nelle zone interne di montagna. E da Gibuti si danno il cambio i soldati di stanza a Mogadiscio: sarebbero 500. Grazie all’assistenza americana, il governo somalo ha messo in piedi il suo primo battaglione di fanteria avanzata nel sud della Somalia.

 

Altro Paese che gode di un interesse speciale è l’Etiopia: una partnership forte e duratura, che fa di questo Paese il primo beneficiario dell’aiuto militare americano, quasi un miliardo di dollari nel 2017. In cambio, 4.000 soldati etiopi fanno parte di Anisom, la forza congiunta creata dall’Unione Africana per il mantenimento della pace in Somalia.

 

In questi ultimi anni anche il Kenya e l’Uganda hanno ricevuto assistenza tecnica e finanziaria dagli USA, per rafforzare i loro eserciti, sempre in funzione antiterroristica. Benché non abbia dichiarato il numero di truppe, il capo di Africom ha riconosciuto che la presenza militare statunitense in questi Paesi è solida.

Qui puoi leggere il rapporto completo di AFJN in formato PDF.

a cura di p. Marco Prada

Foto: dal sito ufficiale di Africom