Il 7 aprile 2019 il Ruanda ha commemorato il venticinquesimo anniversario del genocidio. In quei cento giorni di follia – tra il 7 aprile e il 4 luglio 1994 – si è consumata un’ecatombe di bambini, donne e uomini in un piccolo stato dell’Africa centrale. Per capire come sia stato possibile proponiamo uno Speciale diviso in due parti, dedicato a un genocidio che si poteva evitare.
Le origini delle rivalità etniche
Originariamente popolato dai pigmei Batwa, nomadi cacciatori e raccoglitori delle foreste, il Ruanda, grazie alle favorevoli caratteristiche climatiche e ambientali, ha conosciuto l’arrivo di altre etnie: prima gli Hutu, agricoltori di origine bantu, poi nel XIII secolo i Tutsi, pastori provenienti dall’Etiopia. Culturalmente più avanti rispetto alle altre etnie, i Tutsi iniziarono a imporsi sugli altri gruppi. Queste diversità etniche e i rapporti sociali, economici e politici che ne derivavano vennero in seguito alimentati dai colonizzatori tedeschi e belgi, nel corso del XX secolo. In particolare nel 1932 i belgi introdussero una “carta d’identità etnica”. Ai Tutsi furono accordati privilegi, oltre che posti di comando e ciò alimentò le ostilità nei loro confronti da parte degli Hutu. Nel 1959, si manifestarono gravi episodi di violenza che costrinsero migliaia di tutsi a rifugiarsi in Uganda. Nel ’62, il Ruanda – sotto la guida del presidente Gregoire Kaybanda, di etnia Hutu – divenne una repubblica indipendente. Nel corso degli anni successivi, gli scontri fra Tutsi e Hutu proseguirono, fino a quando nel 1973, Kaybanda venne deposto da un golpe che portò Juvenal Habyarimana (Hutu) alla presidenza del Paese. Molti Tutsi lasciarono il Ruanda e si rifugiarono nel vicino Uganda. Nel 1990, si manifestarono le prime avvisaglie di quello che si sarebbe trasformato in un vero e proprio genocidio. Quell’anno, scoppiò infatti la guerra civile, dopo che il Fronte Patriottico Ruandese, formazione politico-militare nata dalle comunità di Tutsi fuggite all’estero a partire dagli anni ’60, varcò la frontiera dell’Uganda e invase il Paese.
Il Ruanda, nonostante stesse vivendo una situazione economica e sociale grave, si trasformò nel terzo importatore di armi del continente africano. Tra il gennaio 1993 e il marzo 1994, vennero poi acquistati dalla Cina più di 500 mila machete. Infiammò ancor più la situazione il censimento voluto dal governo nel 1993: in quell’occasione, tutti i cittadini ruandesi furono obbligati a rendere nota l’appartenenza tribale. Nello stesso anno, si erano però anche avviate trattative per giungere ad una tregua. Il 4 agosto 1993, il presidente ruandese Juvenal Habyarimana aveva firmato un accordo di pace ad Arusha (Tanzania), con il Fronte Patriottico Ruandese a guida Tutsi per porre fine al conflitto civile in atto. Questi tentativi di pacificazione, però, furono osteggiati da alcuni gruppi hutu che dalle frequenze della Radio Mille Colline incitavano all’odio etnico. L’evento che fece precipitare la situazione si verificò il 6 aprile 1994, quando l’aereo su cui viaggiavano Juvenal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, presidenti rispettivamente del Ruanda e del Burundi – di ritorno da una conferenza per far avanzare il processo di pace – venne colpito ed abbattuto (ancora oggi non si sa da chi). Il giorno seguente iniziavano i 100 giorni più lunghi della storia ruandese: sino ai primi di luglio, squadroni della morte e truppe dell’esercito causarono il massacro di migliaia di Tutsi e di Hutu in qualche modo imparentatati o collegati ai primi: il machete fu l’arma più usata nel compiere il genocidio.
La missione di assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda
La UNAMIR (La missione di assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda) era nata nell’ottobre 1993 con lo scopo di contribuire all’implementazione effettiva dell’accordo di pace di Arusha, firmato dal presidente ruandese Juvenal Habyarimana e i rappresentanti del Fronte Patriottico Ruandese a guida Tutsi. Inizialmente, la missione doveva difendere la capitale Kigali, oltre che garantire il cessate il fuoco nella zona demilitarizzata e supervisionare le condizioni di sicurezza durante il periodo in cui avrebbe dovuto essere in carica il governo di transizione. I caschi blu avevano anche il compito di coordinare gli aiuti umanitari. Capo della missione ONU era il generale canadese Romeo Dallaire il quale, una volta compreso il contesto ruandese, chiese ai vertici delle Nazioni Unite di ricevere ulteriori caschi blu (almeno cinquemila militari in più), al fine di dispiegare una forza multinazionale in grado di agire prontamente per riportare l’ordine e per garantire la sicurezza dei civili. Era inoltre necessario interrompere l’importazione di armi. L’11 gennaio 1994, con una nota riservata, Dallaire aveva avvertito l’ONU in merito alla possibile involuzione degli eventi in Ruanda. Ciò era percepibile anche ascoltando i programmi dell’emittente radiofonica nazionale, Radio des Milles Collines, nei quali si esortavano gli squadroni della morte – chiamati Interahamwe che in lingua kinyarwanda significa “quelli che combattono insieme” – ad accelerare il massacro. Queste trasmissioni avrebbero potuto essere interrotte facilmente, utilizzando la strumentazione presente sugli aerei militari statunitensi in dotazione anche fra le truppe ONU. Poche settimane prima dell’inizio del genocidio, vennero uccisi dieci caschi blu.
Di fronte all’instabilità sociale e politica del Paese, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con il voto del 21 aprile, decise di ritirare la maggioranza dei soldati della missione. Rimasero soltanto quattrocento caschi blu, soprattutto volontari ghanesi e tunisini, insufficienti per fermare il genocidio. Dal dicembre 1995, a massacro terminato, la UNAMIR ricevette il compito di aiutare il rimpatrio in Ruanda dei rifugiati fuggiti nei Paesi confinanti. Il suo mandato finì l’8 marzo 1996 e il ritiro avvenne un mese dopo. Quei giorni di sangue e di orrore sono stati ricordati e analizzati nel libro “Ho stretto le mani al diavolo” di Romeo Dallaire (Edizione originale in inglese, Roméo Dallaire, Shake hands with the devil, Random House of Canada, 2003). Da queste memorie provenienti da uno dei protagonisti di quei giorni, emerge la constatazione che l’intervento ONU avrebbe potuto evitare il massacro.
a cura di Silvia C. Turrin