Nell’agosto di 400 anni fa un gruppo di africani fu portato in Virginia, dove venne «venduto» ai coloni inglesi. È una data che molti (compreso Trump) preferiscono ignorare, ma segna una pietra miliare nella vicenda degli Stati Uniti, che sono stati la prima società aperta ma restano caratterizzati da una grave questione razziale. Anche dopo l’emancipazione seguita alla guerra civile, i neri hanno subito forti discriminazioni, mentre gli immigrati europei bianchi sono riusciti a liberarsene. La barriera del colore non è mai sparita del tutto

A fine agosto 1619 il White Lion, una nave corsara inglese con lettere di corsa olandesi, approdò a Point Comfort (oggi Fort Monroe, a Hampton) per poi giungere a Jamestown, il borgo di poche centinaia di anime della prima colonia inglese in Nordamerica, la Virginia, che dal 1607 sopravviveva a stento tra fallimenti economici, scontri politici e attacchi indiani.

Vi sbarcò 33 africani di origine angolana prelevati dal São Jõao Bautista, una nave negriera portoghese che ne stava portando 350 a Veracruz in Messico. Ne prese pochi perché di più non poteva trasportarne e a Jamestown li scambiò per provviste, non per denaro che i virginiani non avevano.

L’episodio fino a pochi anni fa era menzionato solo di sfuggita, se lo era, nella storia del Paese della libertà, il cui mito fondativo era ed è l’arrivo a Cape Cod, nel Massachusetts, dei Pilgrim Fathers, i Padri Pellegrini, un anno dopo, il 20 novembre 1620. I miti fondativi, tanto necessari quanto ambigui, scelgono e manipolano la realtà per dare un senso univoco a comunità la cui storia è sempre contraddittoria e sfuggente.

Così è stato anche per i Pilgrim Fathers, la cui fuga dalla persecuzione della Chiesa d’Inghilterra li aveva dapprima portati in Olanda, da cui pure erano fuggiti perché troppo tollerante e quindi impura e pericolosa per dei duri calvinisti. La loro libertà, infatti, era quella religiosa per i pochi predestinati da Dio alla salvezza eterna e riservate solo a questi erano la Chiesa e la comunità che intendevano fondare in Nordamerica in un’area inglese.

Si sarebbero sentiti preda del demonio se avessero saputo di diventare i Penati dell’illuminista Dichiarazione d’indipendenza e della Statua della libertà; ma c’è un altro e più oscuro aspetto nel mito fondativo americano ed è l’aver condannato a una damnatio memoriae, il cui velo comincia solo oggi a essere sollevato, i 33 angolani del White Lion, Padri Pellegrini anch’essi della storia statunitense.

Il 1619 e il 1620 sono indissolubilmente intrecciati e se il 1620 ha scacciato il 1619 è stato perché quell’intreccio era insopportabile per chi si sentiva portatore di un ideale di libertà che, per essere universale, aveva bisogno di una sola, pura origine.

Il 30 luglio scorso Donald Trump ha partecipato a Jamestown alla cerimonia per il quattrocentesimo dell’Assemblea elettiva della Virginia e con la sua retorica senza freni ne ha parlato come del più grande risultato della storia umana, esaltando il comune destino del più grande Paese al mondo. Ci sono state controdimostrazioni e la cerimonia è stata interrotta da un deputato statale democratico, Ibraheem S. Samirah, nato a Chicago da immigrati palestinesi, musulmano, che lo ha contestato gridando che l’America è di tutti.

Il riferimento era alle recenti, feroci dichiarazioni con cui il presidente ha intimato a quattro deputate democratiche al Congresso che lo avevano attaccato, nessuna delle quali bianca, di tornare a fare qualcosa di buono nei loro Paesi invivibili e invasi dal crimine, anche se una sola, Ilham Omar, è immigrata, una somala musulmana.

Trump sapeva di correre rischi dal momento che il 1619 è il quattrocentesimo sia dell’Assemblea virginiana che dell’arrivo del White Lion; ma con la sua presenza ha inteso infondere entusiasmo alla propria base, poco interessata al secondo anniversario, e aprire la campagna elettorale per il 2020 riaffermando di non essere razzista. Lo ha fatto con un discorso inteso a ricomprendere ogni americano nell’abbraccio della nazione; ma non ha menzionato l’altro 1619. Un discorso tipico della cosiddetta color blind ideology, un’ideologia che non è razzista perché non bada al colore della pelle. Il problema, tuttavia, è se negli Stati Uniti questo sia sufficiente.

Sulla sorte dei 33 africani del White Lion non abbiamo notizie precise: la schiavitù vera e propria (diffusa e radicata nelle civiltà antiche) all’epoca era cosa da colonie ricche come quelle spagnole e nelle piccole, appena iniziate piantagioni di tabacco, con cui la Virginia cercava di risollevare le proprie sorti, lavoravano servitori a contratto inglesi, bianchi poveri che pagavano il viaggio transatlantico facendosi vendere per vari anni di lavoro senza paga, dopo il quale erano liberi. Gli angolani forse vennero assimilati a questi; ma negli anni Sessanta la situazione era già del tutto cambiata per i piccoli gruppi che continuavano a sbarcare.

I tribunali e l’Assemblea, elettiva ma dominata come non poteva non essere dall’élite della colonia, avevano a mano a mano vietato i matrimoni misti, allungato ad libitum il periodo di servaggio, vietato agli africani di possedere terra e statuito che ogni loro violenza contro un bianco fosse reato, ma non viceversa. In pratica avevano creato una casta di lavoratori forzati a vita che per di più ne procreavano altri.

Il piccolo evento del 1619 andò ben oltre l’aver ampliato alle colonie inglesi in Nordamerica l’arco dello schiavismo che andava dal Brasile portoghese al Messico spagnolo, pur se gli schiavi giunti in Nordamerica fino al 1808, quando in base alla Costituzione gli Stati Uniti ne vietarono l’arrivo, furono pochi rispetto ai 10-12 milioni di vittime della tratta, circa 500 mila.

Le conseguenze del 1619 fecero, infatti, detonare la combinazione fra due elementi. Il primo era la certezza inglese di una superiorità etnica, culturale e religiosa che impediva ogni mescolanza con altri popoli o razze, come si era già visto con la sanguinosa conquista e la dura colonizzazione dell’Irlanda. Un dato che portò all’invalicabile separazione fra i coloni da una parte e dall’altra sia gli africani sia i nativi.

Il secondo fu la certezza che lo schiavismo diede ai bianchi poveri, il white trash, la spazzatura bianca, di non essere la feccia della società, ma di appartenere per diritto di nascita allo stesso universo, alla stessa casta, delle élite. Era una sensazione profonda e immarcescibile che segnò indelebilmente i rapporti sociali nel Sud e portò i bianchi poveri a fare di tutto per non mettere in forse la preziosa barriera del colore. Non era, il loro, un razzismo teorizzato, quanto un vissuto che si riteneva naturale e giusto.

La teorizzazione giunse nella prima metà dell’Ottocento, quando il Sud prese a sentire sul collo il fiato degli abolizionisti e della fine della schiavitù a Nord e con molta scienza si teorizzò un «benevolo paternalismo» nei confronti della «razza bambina».

Gli africani, condannati nella Genesi in quanto discendenti di Cam, il figlio di Noè maledetto dal padre, non erano mai diventati adulti, erano golosi, dormiglioni, ladruncoli, incapaci di iniziativa, peccato capitale questo in una società ipercompetitiva. Per di più erano animaleschi nella loro lussuria. Andavano guidati, costretti all’ordine e al lavoro per dare un contributo armonico alla civiltà eretta dalla razza bianca. Gli africani erano schiavi per natura.

Negli Stati del Nord, dove la schiavitù era stata abolita ai primi dell’Ottocento sotto la spinta degli ideali dell’illuminismo e del cristianesimo sostenuti dal suo essere poco utile all’agricoltura famigliare e alla nascente industria della regione, queste tesi erano poco seguite; ma anche a Nord non ebbe difficoltà ad affermarsi la cultura castale della razza bambina e, con modalità diverse da Stato a Stato, gli africani, pur liberi, si videro negati i diritti politici e molti diritti civili.

Subito dopo la guerra civile (1861-1865) il XIII, XIV e XV emendamento alla Costituzione vietarono la schiavitù e garantirono ai neri la cittadinanza e tutti i diritti; ma negli ultimi decenni del secolo i bianchi del Sud riuscirono a eluderli e a istituire la segregazione. Una mossa resa possibile da quello che gli storici chiamano «patto razziale» fra nordisti e sudisti, con il quale il Nord mantenne la guida della politica nazionale, innanzitutto economica, in cambio della segregazione a Sud e in maggioranza accettò la cultura castale sudista nel nome di una condivisa supremazia bianca.

L’iscrizione alla base della Statua della libertà: «Datemi i vostri poveri stanchi, le vostre masse che vogliono respirare la libertà» riassume l’ideale di un Paese libero perché aperto a tutti. Cosa che si può dire vera se si esce dal mito nazionalista delle origini e si accetta il fatto che i gruppi etnici immigrati hanno subito fortissime discriminazioni. Per circa tre generazioni irlandesi, ebrei, italiani, polacchi e slavi non sono stati ritenuti veri americani e hanno dovuto lottare con asprezza per giungere a essere considerati tali. Tuttavia erano bianchi — la whiteness degli italiani era a tratti messa in dubbio — e la linea del colore non poteva essere usata contro di loro, per cui dopo una lunga fase di prova vennero accettati.

Anche gli afroamericani hanno lottato con durezza fin dai tempi della schiavitù e la voce di grandi personaggi, come William E. DuBois a inizio Novecento, si è fatta sentire per rivendicare l’uguaglianza e l’esistenza di una originale cultura nera pari a quella bianca; ma la linea del colore ha sempre giocato contro di loro. Un profondo mutamento si ebbe negli anni Sessanta, con le leggi che posero fine alla segregazione e le politiche sociali della Great Society di Lyndon Johnson, che sottrassero moltissimi afroamericani alla povertà.

Il risultato è stato la nascita di una classe media nera che ha fatto enormi progressi professionali e politici (si pensi alla presidenza Obama) e con la scrittrice Toni Morrison, morta il 5 agosto scorso, che in tutta la sua opera ha esplorato l’esperienza afroamericana, è giunta nel 1993 al Premio Nobel. Un cambiamento senza precedenti accompagnato, però, da uno scontro razziale vieppiù acuto e da un razzismo non più a base biologica, ma culturale, che addebita la povertà, la criminalità, il disagio dei ghetti neri alle politiche di welfare che annullano il senso di responsabilità e l’attitudine al lavoro degli afroamericani. Un’accusa rivolta anche ai latinos, che è servita a giustificare politiche neoliberiste contro il welfare.

Si è venuta a creare, così, una situazione esplosiva in cui l’antico portato del 1619, la supremazia bianca, tenuta a freno dal diversificarsi e dalla crescente porosità della società americana, è tornata alla ribalta, questa volta nutrita dal timore per i mutamenti demografici che stanno erodendo la maggioranza bianca e il suo status. Il Paese che conoscevamo famoso per il suo melting pot, il suo crogiolo in cui tutte le etnie si scioglievano diventando americane, continua a incontrare nella linea del colore, oggi ampliata ai latinos, una barriera che arretra, ma non scompare.

Un fenomeno che induce a riflettere sulla storia degli Stati Uniti e sulla loro indefettibile fede nella supremazia bianca. La storia di un Paese che per primo ha dato vita a una società aperta; ma non riesce ad accettare davvero di aver mantenuto un pregiudizio razziale che lo mina e gli impedisce di scorgere quanto il 1619 e il 1620 siano due facce inseparabili della sua storia.

Da: La lettura (Corriere della Sera), 11 agosto 2019, pagg. 2-3

Foto: Times Magazine, Washington Post, Yes!Magazine, Usa Today, Altday, Zinne Educ.Proj.,