La Missione è una porta aperta

Scrivo questo testo – spero non troppo lungo e noioso – a Genova l’8 maggio 2020, dopo oltre due mesi dall’inizio del lockdown e all’inizio di quella che viene chiamata da tutti “fase 2”, la quale sta portando con sé tante aspettative per un ritorno a quella che si chiamava normalità, ma anche una forte preoccupazione legata al rischio di poter vedere risalire il numero dei contagi.

Come prete, ho condiviso con semplicità un nuovo modo di esistenza

In questo tempo, apparentemente privato di ogni tipologia di attività pastorale o di gruppo, posso dire come sacerdote e parroco, di aver condiviso l’esistenza degli uomini e delle donne che vivono nelle tre parrocchie che sono chiamato a servire. In coscienza, davanti a Dio, sento di aver vissuto – e di star vivendo tuttora – una forte esperienza spirituale e pastorale, in un’intensa e semplice vita quotidiana di preghiera, di lavoro, di studio e di “fantasia” nel trovare i tempi e modi più adeguati perché la comunità resti legata al suo interno e vincolata a Cristo.

Nessuno poteva uscire a causa del contagio, rispettando pienamente tutte le giuste e coraggiose decisioni del Governo Italiano, condivise dai Vescovi che hanno sospeso tutte le celebrazioni e principalmente tutte le Messe, domenicali e feriali, con il Popolo. Tuttavia, la prima decisione che ho sentito di poter e dover prendere è stata quella di tenere aperte – tutti i giorni e per più tempo possibile – tutte le nostre chiese (sempre rispettando le norme di sicurezza) considerando questo umile segno come il gesto profetico di una missione che non si interrompe, ma che sa mettersi in ricerca delle vie di Dio che, molto spesso, passano per sentieri sconosciuti.

Un forte richiamo a vivere la Messa come il cuore della propria vita

Così le chiese sono rimaste aperte e, grazie a chi, pur senza muoversi di casa, ha assicurato un’attenzione alla cura di alcuni servizi parrocchiali, i fedeli hanno avuto qualche possibilità di entrare ogni tanto in quella più vicina al loro domicilio mentre uscivano di casa per le spese alimentari. Poter pregare davanti al Tabernacolo e anche chiedere individualmente la Santa Comunione, sempre in pieno rispetto delle esigenze attuali, sono stati come una medicina, non solo per l’anima dei fedeli, ma anche per la mia, perché, in questo modo, ho potuto vedere ancora una volta come il Signore Gesù sia il vero Pastore del suo gregge.

Ancora fino ad oggi (ndr: 8 maggio 2020) i laici, soprattutto i più impegnati, provano grande sofferenza per la privazione dell’Eucaristia: anche questa sofferenza offerta a Dio sta generando in tutti un forte richiamo a vivere la Santa Messa e la Comunione quotidiana come il cuore della vita personale e comunitaria.

Una “solitudine celebrativa” che non è lontananza

Quotidianamente io, come gli altri sacerdoti, stiamo continuando a celebrare la Santa Messa senza il concorso del popolo. Questa apparente “solitudine celebrativa” non è mai stata lontananza, ma, proprio attraverso la celebrazione della Messa – da alcune settimane trasmessa dalle nostre parrocchie attraverso i nuovi canali di comunicazione -, e sostenuti dalla fede, ha aperto la nostre parrocchie ad offrire il Santo Sacrificio di Gesù per tutti, per tutto il mondo.

Personalmente sono contento di poter sfruttare i nuovi media per portare nelle case dei fedeli – in questa complessa situazione – la possibilità di seguire la Messa celebrata nelle nostre chiese; la forza della comunione spirituale, in questo tempo di impossibilità di ricevere il Sacramento dell’Eucarestia per il popolo di Dio, si è trasformata in una rete di carità operosa testimoniata da tutti e in tutti i modi possibili. Ringrazio il Signore perché nei primi giorni dell’epidemia sono ancora riuscito a portare la Santa Comunione e l’Unzione degli infermi ai malati che lo richiedevano; ciò è diventato sempre più difficile con il progredire dell’emergenza sanitaria.

Con le persone malate

Con il passare dei giorni la vicinanza alle persone malate si è trasformata nella vicinanza, almeno telefonica, con i parenti dei malati che non potevano assistere i lori cari perché ricoverati in terapia intensiva e non potevano più essere avvicinati da nessuno a causa del pericolo di contagio. Alcune telefonate significative sono state quelle con persone, adulte e giovani, che in quanto medici, o infermieri, o volontari di pubbliche assistenze si sono trovate ad offrire totalmente le loro energie per il bene della collettività.

La vita della comunità, nelle varie dimensioni proprie della nostre parrocchie, non si è mai fermata, ma, saggiamente, ha saputo anche rallentare per comprendere la profondità di un tempo “quasi sospeso”, ma, pur sempre carico di significati e di possibilità di maturazione umana e cristiana.

I vari incontri di gruppo si sono, per così dire, “trasferiti” in stanze digitali nelle quali sono confluite le varie attività catechistiche ed educative, anche se, con il passare delle settimana, comincia ad essere chiaro che la formazione, per essere tale, ha sempre bisogno della relazione personale. Grande impegno – di testa e di cuore – è stato profuso nella carità in tutte le forme possibili: in modo particolare l’accoglienza di una dozzina di persone senza fissa dimora e di una famiglia congolese con il bambino al Gaslini, insieme alla disponibilità di fornire la spesa (o i pasti) a coloro che ne facevano richiesta, ha ridefinito ancora una volta la comunità cristiana come “famiglie di famiglie”.

Il pacco di alimenti davanti alla porta

In questi giorni ricordo con quasi “nostalgia” le serate in cui, dopo aver chiuso la chiesa, riuscivo a lasciare presso qualche casa gli alimenti che altre persone mi avevano lasciato in parrocchia per offrirli alle famiglie in difficoltà… come spesso accade a Genova la profondità della generosità delle persone ha coinciso con la riservatezza e il desiderio non essere neanche ricordati.

Come ci insegna la vita di S. Teresa di Lisieux, Patrona delle Missioni, posso testimoniare di aver sperimento, insieme a tutta la nostra grande comunità, la potenza della preghiera per tutta l’umanità che soffre, per i malati, i moribondi e i defunti, per i medici e le infermiere, per tutte le famiglie duramente provate da questo confinamento. Come tutti, anche la nostra comunità, ha usato al massimo i mezzi di comunicazione per raggiungere, il più possibili, tutti i suoi membri: telefono, Skype, WhatsApp, internet, Facebook, Instagram, YouTube.

Una spinta ad adattare la nostra pastorale alle corcostanze

Quasi come in tempo di guerra, si è percepita forte l’urgenza di “adattare” ancora di più la pastorale a questa situazione, cercando vie nuove e eccezionali per avvicinare Gesù Eucaristia ai fedeli, come lo facevano i cappellani militari portando la comunione ai soldati, specialmente ai feriti e morenti, insieme al conforto della Sua Parola.

Senza dubbio la profondità di questo tempo è stata avvertita da tutti e, sono dell’idea che, per poter scorgerne i potenziali doni, sarà necessario rinnovare il senso di comunità cristiana che pur non essendo stato intaccato da questo tempo di “mancanza di attività”, è sempre messo in crisi dalla “mancanza di comunione”: la coscienza di essere tutti coinvolti in questa tempesta ci ha restituito l’urgenza della fraternità e dalla condivisione di quei mezzi che ci permettono di giungere alla meta desiderata… non come singoli individui, ma come Chiesa, comunità di salvati che indica Gesù come il vero Salvatore.

Una porta rimasta aperta

Credo che l’immagine pastorale più eloquente di questo periodo possa essere la porta aperta delle nostre chiese: in questi mesi di lockdown, nei quali si è percepita un’umana assenza di persone in movimento, il segno di quelle porte aperte ci ha messo davanti alla costante presenza di Cristo Eucaristico che permette sempre di portare le nostre vicende terrene presso il cuore del Padre.

don Stefano Bisio
Parrocchia di S. Giovanni Battista a Genova Quarto