Il Grande Zimbabwe è uno dei siti archeologici più estesi e complessi dell’Africa. Visitarlo e conoscerne la storia permette di comprendere la ricchezza culturale, nonché le capacità architettoniche dei popoli africani. In questo caso, fu la popolazione Shona a realizzare questa straordinaria opera. Il Grande Zimbabwe era un esteso insediamento urbano, edificato in un’area a oltre 1000 metri di altitudine.
Un aspetto, quest’ultimo, da non sottovalutare, poiché evitava il problema legato alla mosca tse-tse, diffusa invece nelle pianure costiere e nelle valli fluviali. Questo grande complesso venne costruito tra il 1100 e il 1450 d.C. La posizione era strategica, poiché a nord e a sud scorrono i fiumi Zambesi e Limpopo, mentre a est si trova la pianura costiera dell’oceano Indiano e a ovest il deserto del Kalahari. Grazie anche alla sua ubicazione, questo insediamento fu per circa due secoli il centro urbano più potente della regione.
La potenza è solo un aspetto della grande civiltà Shona. Ciò che impressiona sono in primis le conoscenze architettoniche, espresse nella costruzione degli insediamenti. Gli edifici sono infatti formati da massicci ed enormi blocchi di pietra, posti uno sopra e accanto all’altro con un’incredibile abilità, utilizzando la tecnica muraria a secco. Sorprendono le strutture a forma conica, i muri interconnessi e le recinzioni sempre in pietra.
Tra le strutture più impressionanti vi è una costruzione lunga oltre 200 metri, spessa fino a 5 metri, alta 10 metri e formata da oltre 5000 m² di materiale, ovvero blocchi di pietra perfettamente tagliati. Queste strutture in pietra si presume fossero le dimore delle famiglie che detenevano il potere. La popolazione – che all’epoca del massimo splendore del regno era formata da circa 10mila abitanti – viveva in piccole capanne di fango e paglia in un territorio molto più ampio rispetto a quello occupato dalle élite politiche.
Si trattava di un insediamento fiorente, come testimoniamo i reperti legati all’aspetto economico ed agricolo. Le terre erano coltivabili (non a caso, un tempo, almeno sino alla metà del ’900 lo Zimbabwe era chiamato “il granaio d’Africa”) e altrettanto ricco era il settore dell’allevamento di bestiame. Sviluppato era anche il commercio, sia con l’interno dell’Africa, sia con i centri lungo la costa dell’oceano Indiano. I maggiori scambi riguardavano l’oro, il rame, il sale, l’avorio, ma anche le perle di vetro e le ceramiche persiane e cinesi. Nella zona orientale dell’Africa, infatti, era sviluppato il commercio con il Medio Oriente e con l’Asia, poi sconvolto dall’arrivo dei coloni portoghesi). Questo ricco commercio permise poi il fiorire di altre civiltà africane importanti, come quella Swahili (tra la Tanzania e il Kenya).
Il sito archeologico del Grande Zimbabwe dimostra le notevoli conoscenze dei popoli africani e sfata l’idea della loro inferiorità culturale, architettonica e urbana, ampiamente diffusa in Europa e in Occidente sino a pochi decenni fa. Basti pensare a ciò che affermò l’esploratore tedesco Karl Mauch, nel 1871: “La città non è stata costruita dagli africani, poiché lo stile architettonico è troppo elaborato: è l’opera di coloni fenici o ebrei”.
Soltanto nel XX secolo vennero alla luce chiaramente le deformazioni storiche e archeologiche promosse con fermezza dai coloni bianchi per imporre il loro dominio economico e razziale in quell’area. La vecchia Rodhesia razzista ritornava nelle mani degli africani. L’epopea del grande regno degli Shona in qualche modo si ripresentava ridando al Paese indipendente il nome di Zimbabwe. Nel 1986, l’UNESCO ha inserito il sito archeologico del Grande Zimbabwe tra i Patrimoni dell’Umanità.
Silvia C. Turrin
Foto: Global Geography; PBS.