Stefania Prandi (nella foto sotto) è una giornalista di genere, attenta alle ferite che le donne da secoli portano addosso. Ha appena pubblicato il libro Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo (Edizioni Settenove, Cagli – Pesaro Urbino). Si tratta della sua inchiesta sullo sfruttamento delle migranti braccianti, condotta in Italia, Spagna e Marocco. Un viaggio durato due anni in questi paesi che esportano ortaggi e frutta in Europa e nel mondo. Un viaggio di ascolto della voce di lavoratrici umiliate, annullate, violentate. Spesso invisibili. Un’inchiesta cruda e audace sulle molestie, lo sfruttamento e la tortura psicologica che interroga tutti noi su diritti umani negati e su cosa portiamo sulle nostre tavole. Le paghe irrisorie, i turni estenuanti, le baracche, la solitudine, i ricatti e le violenze verbali, gli stupri e gli aborti tra campi di fragole e pomodori. Ma anche la resistenza alla violenza, la sopravvivenza quotidiana, il coraggio della denuncia che spesso cade nel vuoto.
Dal sito Vita.it riprendiamo alcuni brani dell’intervista che la giornalista ha concesso a Erica Battaglia.
Domanda: Che cosa ostacola la legalità e il rispetto dell’essere umano in queste terre di raccolta dei prodotti agricoli?
Stefania Prandi: La cultura dell’illegalità e dell’abuso è più forte delle leggi e viene rafforzata dall’omertà. Purtroppo nei territori dove sono presenti certi fenomeni come quello dello sfruttamento della manodopera femminile nei campi, con gli abusi sessuali, c’è anche un atteggiamento diffuso di tolleranza, un senso di impunità per chi li commette. A rendere ancora più pesante il clima, il sessismo condiviso da uomini e donne, l’idea che siano le donne a cercarsela.
D.: Puoi darci qualche numero che aiuti a comprendere la diffusione del fenomeno violenza sessuale/aborti?
S.P.: Quando si affrontano certi fenomeni sommersi, come quello della violenza sul lavoro, è difficile trovare numeri efficaci. Purtroppo per quanto riguarda le molestie, i ricatti sessuali e gli stupri subiti dalle donne nei campi ci sono pochissime sentenze e poche denunce, gran parte delle quali finisce nel vuoto. Quindi è impossibile rispondere alla domanda: a quante donne succede? Ci si può basare sulle stime di chi opera sul territorio. Secondo Rosaria Capozzi, operatrice sociale di Foggia, “Su dieci datori di lavoro della nostra zona cinque ci provano e pesantemente, più con le straniere che con le italiane, perché lo ritengono quasi uno Ius primae noctis (il diritto della prima notte) odierno”. Un altro dato per certi versi indicativo è quello degli aborti. Penso ad esempio al territorio di Vittoria, in Sicilia: secondo i dati raccolti dal giornalista Antonello Mangano, il tasso di aborti regolari a Vittoria è stato di centoundici nel 2016, centodiciannove nel 2015, e rappresenta il 19% del totale della provincia di Ragusa.
D.: Sullo sfondo delle tue storie, ci sono i figli, figli molto piccoli che si comportano da adulti. Ho letto tra le righe del tuo libro una profonda sofferenza, tua e anche loro.
S.P.: I bambini e le bambine che vivono in questi territori subiscono la conseguenza dello sfruttamento e delle violenze sulle madri e non hanno la possibilità di vivere un’infanzia normale. A volte diventano anche loro vittime di violenza. Per questo motivo molte braccianti migranti preferiscono lasciarli nel paese di origine con i parenti, magari i nonni o gli zii, invece di portarli con loro.
D.: Scrivere questo libro ti ha creato problemi come giornalista. Raccontare l’orrore di luoghi e persone è ancora fortemente ancorato all’idea della reputazione di un posto, di una città, di un Paese?
S.P.: Il problema principale è stato quello di riuscire a raccogliere il materiale necessario superando il muro di omertà di chi mi diceva di lasciare perdere e di non immischiarmi, anche in malo modo. Ho trascorso settimane bussando a tante porte che non si aprivano e poi, ogni volta che qualcuno mi ha aiutata a entrare in contatto con le lavoratrici, ho capito il motivo di questa chiusura. Ci sono condizioni infernali di lavoro, condizioni di precariato, di assenza totale di diritti, di violenza, che tolleriamo come società, illudendoci che non ci riguardi.
D.: Dai un suggerimento ai consumatori. Questi prodotti raccolti da donne immigrate, sfruttate da caporalato, arrivano sulla nostra tavola. Cosa possiamo fare, da utenti finali?
S.P.: Il mio compito è stato quello di impegnarmi al massimo per finire l’inchiesta. Da giornalista freelance non è stato semplice. Credo che la domanda: cosa possiamo fare? sia necessario rivolgerla ai sindacalisti, ai politici, alle Istituzioni, alla distribuzione, ai consumatori. Consiglio questo libro a chiunque sia interessato a conoscere i meccanismi della violenza sul lavoro e a chiunque voglia sapere cosa succede alle braccianti che raccolgono frutta e verdura.