Tutta la vita di Annalena Tonelli, laica missionaria originaria di Faenza e uccisa da un fanatico musulmano in Somalia nel 2003, è una sequela appassionata e tenace del Vangelo di Gesù. Ha voluto seguire Gesù alla sua maniera, rompendo gli schemi a cui noi siamo abituati, cercando una radicalità che lascia senza fiato. Ha scritto: “Scelsi di vivere per gli altri da quando ero bambina: per i poveri, per i sofferenti, per gli abbandonati, per coloro che nessuno ama, e spero di poter continuare così sino alla fine della mia vita”. Era partita per l’Africa a 26 anni, contro il volere della famiglia, e non è più ritornata. Ha voluto vivere in Kenya e poi in Somalia, unica cattolica in mezzo a musulmani spesso ostili. Ha curato, come Madre Teresa, i malati abbandonati lungo le strade: tubercolotici, ciechi, sordi, poliomielitici. Li ha accolti con amore nel suo ospedale, ridando loro dignità.
Scriveva agli amici nel 1968 da Londra, dove studiava l’inglese preparandosi ad andare a vivere in Kenya: “Tutti gli uomini, pur così totalmente differenti, sono così meravigliosamente simili, e quindi veramente compagni di strada e fratelli e figli dello stesso Padre. Sento un tuffo dentro, un turbamento profondo, un’emozione dolcissima quando lo penso, e allora veramente tutto il mondo è dentro di me, e io amo tutto il mondo”. Trova quel mondo che cercava a Wajir, nel nord-est del Kenya, al confine della Somalia. La raggiungono alcune amiche di università. Con l’incoscienza dei giovani vogliono vivere in comunità, loro sole, missionarie laiche. Scelgono di dedicarsi ai nomadi del deserto di quella regione, musulmani dei quali ammirano la fede semplice e l’abbandono totale in Dio. Ma la gente non le capisce. Alcuni le prendono a sassate. Ma non desistono: scoprono la condizione disumana in cui sono lasciati i disabili e i malati di tubercolosi, ed avviano un piccolo ospedale, fatto di tende: “Lottiamo perché i poveri possano essere sollevati dalla polvere e liberati, lottiamo perché gli uomini tutti possano essere una cosa sola.”
Lei che per accontentare i genitori aveva studiato diritto, ha ideato un metodo medico semplice ed efficace per curare la tubercolosi, tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha adottato in tutto il mondo. È stata anche premiata dal Commissariato dell’Onu per i rifugiati. Ma lei cercava solo il nascondimento, il silenzio, l’anonimato. “Ho voluto solo seguire Gesù. Non mi interessava altro: Cristo e i poveri in Cristo. Per lui feci una scelta di povertà radicale, anche se povera come un vero povero – come i poveri di cui sono piene le mie giornate – non potrò mai esserlo. Vivo servendo gli altri senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere ad alcuna organizzazione, senza un guadagno, senza la pensione che mi assicuri il futuro quando sarò anziana. Non sono sposata, perché lo scelsi con gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per Dio.”
Nel 1984 il Kenya è sconvolto da guerre tribali. Lei è testimone di terribili massacri, e fa pervenire ai giornali europei delle foto che le causano l’espulsione dal Kenya. Ma dopo un anno è ancora in Africa, a Merka e poi a Borama, nel nord della Somalia. Mangiava solo riso e fagioli. Aveva solo due tuniche, e un paio di sandali che le aveva regalato qualcuno che l’aveva vista camminare scalza. Era una piccola donna, tutta pelle ed ossa, ma piena di energia. Passava la giornata con i suoi malati di tubercolosi e di Aids, e con i piccoli sordomuti e disabili della sua scuola. E a Borama Dio l’ha chiamata al martirio. Due colpi alla nuca, sparati senza nessuna ragione.
“La vita solo ha senso se si ama. Nulla ha senso fuori dall’amore. Nella mia vita ho conosciuto tanti pericoli. Ho sperimentato nella mia propria carne la malvagità dell’uomo, la sua crudeltà. E ne sono uscita con una convinzione: che l’unica cosa che conta è l’amore. Solo l’amore libera l’uomo da tutto ciò che lo rende schiavo; solo l’amore fa crescere, fiorire. Solo l’amore fa sì che non sentiamo paura di nulla, che siamo capaci di offrire l’altra guancia a chi ci colpisce, che rischiamo la vita per i nostri amici. È così che la nostra vita diventa una benedizione. Diventa felicità persino in mezzo alla sofferenza.”
P. Marco Prada