All’inizio del lockdown, che in Sudafrica vige ormai da più di 130 lunghi giorni, Cape Town, la città madre, si è resa protagonista di una rapida e spontanea mobilitazione, guidata da attivisti, leader comunitari, insegnanti, lavoratori del settore della sanità e non solo. L’idea era (e permane) semplice: produrre una risposta dal basso, comunitaria, condivisa e solidale ai problemi che la città, tutta, si sarebbe di lì a poco trovata ad affrontare.

È così che ha visto la luce il Cape Town Together Network (la rete di Cape Town insieme) che conta oggi più di 170 gruppi (chiamati Community Action Networks, CAN) e almeno 15.000 membri attivi.

Armati di Whatsapp e attraverso chiamate Zoom, anche durante le fasi rigide di confinamento, sono state organizzate raccolte alimentari per le cantine sociali e gli orfanotrofi, firmate petizioni per i senza fissa dimora, creati gruppi di supporto per le donne vittime di violenza (una piaga atroce in Sud Africa che ha raggiunto dimensioni sconosciute durante il lockdown), intavolate discussioni sulle esperienze del territorio.

Cape Town è definita come la città delle tante isole, dove la pianificazione territoriale dell’apartheid e delle successive amministrazioni, ha separato con grande efficacia i ricchi dai poveri, i bianchi dai neri, i neri dai coloured, intensificando le divisioni sociali, culturali ed economiche. In questa realtà frammentata e divisa, la società civile è però quanto mai attiva e dinamica.

Con la chiusura delle scuole 4 mesi fa, circa 9 milioni di bambini poveri sono rimasti senza l’unico pasto garantito al giorno. Spinte dalla necessità, le numerose mense sociali gestite dalle comunità e con l’aiuto dei CAN, provano a sfamare tutti. A Khayelitsha, Tsepo Sejosingoe, oltre a gestire una mensa per 600 bambini, dà voce a chi non ce l’ha attraverso il teatro ukwazana kwethu youth industry group.

Lo incontro brevemente in una mattina assolata e mi dice: “Ho appena postato questo video per il presidente Cyril Ramaphosa (l’attuale presidente del Sudafrica), perché deve vedere la situazione drammatica che le comunità si trovano ad affrontare. Abbiamo bisogno di più aiuto!” esclama. Il video mostra bambini di varie età in una lunga fila, con una ciotola in mano, in attesa di ricevere la colazione.

Il Maphindi Soup Kitchen and Orphanage, a Nyanga, dava riparo e cibo a 15 bambini al giorno prima del lockdown: oggi siamo arrivati a cinquanta. Mama Victoria, come viene affettuosamente chiamata dai bimbi di cui si prende cura, mi dice che “grazie alla grande mobilitazione che c’è stata anche attraverso i CAN, si riesce ad andare avanti. Abbiamo costruito una zona giochi dove i bambini possono trascorrere tempo insieme, giocando e leggendo. Prima non avevano uno spazio condiviso, c’era il cortile ma quando pioveva erano costretti a rimanere in casa; la prossima idea è un orto per la verdura fresca”.

Non ci sono affiliazioni politiche nei CAN, un terreno molto sdrucciolevole in Sud Africa: è l’idea di Ubuntu (l’indissolubile connessione e interdipendenza dell’umanità di tutti noi, espressa in lingua locale Xhosa) che dirige e ispira questa variopinta orchestra di attivisti, vecchi e nuovi. Cresce la consapevolezza, però, che livellare l’incredibile disuguaglianza esistente nel paese, anche attraverso la distribuzione di una pagnotta di pane, è indubbiamente un atto politico (every loaf of bread is political).

Giorgia Nicolò, giornalista frrelance
da
Città del Capo, Sudafrica
(diritti riservati)

Foto: The New Humanitarian; msoithepost.org