Cyrus Kabiru è un artista kenyano che ha scelto per esprimere la sua creatività un campo originale decisamente poco battuto: immagina e costruisce occhiali avveniristici, riciclando parti metalliche, pezzi di vetro e materiali di risulta presi dalla spazzatura. Quindi indossa le sue creazioni e si fotografa. Una selezione di questi scatti è stata presentata, dal 5 ottobre all’8 dicembre, al Museo Africano di Verona, nella mostra “Macho Nne” (quattro occhi, in lingua swahili).

All’origine di questa sua particolare produzione sembra esserci stata una sorta di “trauma” famigliare: «Mio padre, che da bambino portava dei veri occhiali, era stato una volta punito molto duramente da sua madre per averli rotti.  Come conseguenza, aveva sempre vietato a noi figli l’accesso agli occhiali, dicendo che se avessimo voluto averne un paio avremmo dovuto farceli da soli. Io ho preso l’ammonimento alla lettera, e ho cominciato a costruirli con quello che trovavo tra i rifiuti: fondi di bottiglia, pezzi di metallo e di plastica, altri materiali di risulta». 

D.: È sempre la spazzatura la sua principale fonte di approvvigionamento?

R.: Sì, anche se con una novità rispetto al passato. Oggi utilizzo e mescolo volentieri scarti provenienti da paesi diversi, dell’Africa e di altri continenti. Per inciso: ho raccolto qualcosa anche qui a Verona. Sono conosciuto soprattutto per gli occhiali, ma in realtà costruisco anche altre cose. Biciclette, per esempio. E radio, che sono diventate le protagoniste del mio progetto più recente. Le biciclette sono le Black Mambs, quelle pesanti e nere che si trovavano in Kenya fino a poco tempo fa, ma che adesso sono state soppiantate dai modelli portati dai cinesi. Ho iniziato a recuperarle e a reinventarle.

D.: Cosa significa per lei questa reinvenzione dei materiali?

R.: Mi piace l’idea di dare agli oggetti una seconda opportunità. Tutte le cose e tutte le persone dovrebbero avere questa possibilità. È un modo per difendere la natura e proteggere l’umanità.

D.: Le sue opere sono sempre più richieste: si considera un artista o un designer?

R.: Un artista. Anche se a volte vengo definito designer. Non obietto ma io mi sento un artista.

D.: La definiscono anche afro-futurista. Si riconosce?

R.: Afrofuturismo per me è quello di cui stiamo parlando adesso. È prendere dei materiali qui a Verona e combinarli con quelli di altri paesi, e dare vita a qualcosa di nuovo, per esempio una maschera. Quando vedremo il risultato non potremo dire di essere di fronte a una maschera africana ma a un oggetto che è proiettato in una dimensione diversa, inedita, meticcia. Afrofuturista, appunto.

D.: Che programmi ha per il futuro?

 

R.: Qualche mese fa ho aperto un centro artistico fuori Nairobi e ora sono molto concentrato su questo progetto, che si rivolge alle persone che vivono nelle aree rurali e hanno interessi artistici. In questo momento lavorano con me tre artisti emergenti. Spero che presto possano diventare almeno cinque. Tutti reinventano materiali di scarto, riciclando quel che altrimenti andrebbe buttato. È una forma di attivismo. L’arte e la creatività non possono essere fine a sé stesse ma devono avere una funzione etica e sociale.

Stefania Ragusa
su Nigrizia, gennaio 2020

foto: da Pinterest