Armi: chi vende e chi compra. I Signori della guerra
Dietro i meccanismi della politica mondiale si nascondono spesso i segreti dell’industria delle armi. Un business con cifre da capogiro che non smette mai di essere incrementato dall’avidità e dal cinismo dei mercanti di morte, che fanno affari d’oro sulla pelle della povera gente.
Dossier di Popoli e Missione, giugno 2018, pagg. 29-36, di Roberto Bàrbera
Alcuni Paesi sono quasi sconosciuti al grande pubblico. A giornali, radio e televisioni non piace raccontare le guerre. Così i conflitti dimenticati sono tanti. Eppure, in questo momento nel mondo si combatte in modo violento o sporadico in Aceh, Angola, Afghanistan, Algeria, Burundi, Camerun, Ciad, Gibuti, Colombia, Congo, Costa d’Avorio, Egitto, Eritrea-Etiopia, Filippine, Yemen, Israele-Palestina, Libia, Kashmir, Kenya, Kurdistan, Mali, Sahara occidentale, Mauritania, Mozambico, Nepal, Nigeria, Puntland, Repubblica Centrafricana, Senegal, Siria, Somalia, Sudan, Uganda, Ucraina. II nome Guus Kouwenhoven a molti lettori non ricorda nessuno, ma si tratta di uno dei trafficanti di armi più pericolosi del pianeta. All’inizio di dicembre dello scorso anno la polizia del Sudafrica lo ha fermato su mandato internazionale dopo che un tribunale olandese, la sua nazione di origine, l’aveva condannato a 19 anni di carcere. Per arrivare a sentenza ci sono voluti 17 anni, visto che i reati puniti dalla Corte risalivano alla Seconda guerra civile di Liberia, cominciata nel 1999 e finita nel 2003. II primo atto giudiziario contro di lui risale al 2001, quando le Nazioni Unite avevano emesso un ordine restrittivo col quale gli si impediva di spostarsi a causa della sua attività. Nella carneficina liberiana sono morte oltre 250mila persone, in gran parte civili. L’uomo però è libero, la giustizia sudafricana non lo ha ancora estradato in Olanda dove dovrebbe scontare la pena. Durante la guerra, Kouwenhoven era a capo della Oriental Timber Corporation (OTC). Secondo i giudici olandesi il criminale aveva venduto armi al regime e ricevuto in cambio, oltre al denaro, anche la possibilità di saccheggiare liberamente la foresta pluviale liberiana, mettendo in crisi definitivamente l’intero ecosistema dell’area.
Viktor Bout è un altro illustre sconosciuto al grande pubblico. È stato lui ad ispirare il personaggio di Yuri Orlov, interpretato da Nicholas Cage nel film Lord of War. Nella sua vita, questo ex traduttore militare sovietico ha riempito gli arsenali di presidenti e guerriglieri, rivoluzionari e terroristi. In Liberia, Angola, Somalia, Rwanda, Sierra Leone, Congo, Afghanistan, America Latina migliaia di persone sono state ammazzate con le sue armi. Charles Taylor, il dittatore liberiano, lo pagava con diamanti e schiave bellissime, le Farc colombiane lo sommergevano di coca, il signore della guerra afghano Massoud lo copriva di smeraldi. Durante la tragedia ruandese ha trasportato sui suoi aerei sia i mitra per carnefici che i militari francesi mandati da Parigi a fermare la carneficina. Douglas Farah, giornalista americano autore del libro Merchant of Death (Mercanti di Morte), ha raccontato: «Abbiamo intervistato tanti in Angola e Congo: sapevano benissimo che Bout aveva armato anche i loro nemici, ma volevano le sue armi e ci hanno sempre detto che nessuno spara al postino». Oggi la sua carriera è finita, un tribunale statunitense lo ha condannato a 25 anni di prigione, ma le ombre sul “lavoro” del trafficante non si sono mai diradate. II Cremlino ha accusato Washington di aver costruito una macchinazione per colpire la Russia, gli americani hanno respinto sdegnosamente le accuse. Naturalmente nessuno saprà mai la verità, perché dietro il commercio delle armi ci sono colossali interessi politici ed economici. E spesso insospettabili governi.
Cosa c’è dietro le armi
Una storia per tutte. Nel lontano 1985 l’amministrazione del presidente americano Ronald Reagan fu coinvolta nello scandalo chiamato dei media Iran-Contras. La Casa Bianca, all’epoca molto ostile al governo sandinista del Nicaragua, intendeva a tutti i costi finanziare la guerriglia contraria al presidente Daniel Ortega. Reagan per sostenere le milizie addestrate dalla Cia aveva chiesto fondi al Congresso. I deputati non solo rifiutarono, ma approvarono l’emendamento Boland, col quale si vietava qualunque tipo di impegno finanziario teso a rovesciare il governo nicaraguense eletto in consultazioni considerate legali.
Nello stesso periodo, per ritorsione contro i ripetuti attacchi delle forze armate israeliane sostenute da aviazione e marina militare Usa, le milizie libanesi di Hezbollah avevano rapito a Beirut 17 cittadini americani e 75 altre persone con passaporto occidentale. Gli ostaggi erano tenuti in condizioni disumane, alcuni venivano torturati e altri lasciati morire di stenti. L’opinione pubblica statunitense era profondamente scossa.
Fu così che, per aggirare la decisione del Congresso ed aiutare le bande anti Ortega, alcuni funzionari della Casa Bianca ebbero una idea. Si poteva stanziare del denaro per risolvere la “grana libanese” e vendere armi all’Iran, principale sponsor di Hezbollah, nonostante nei confronti degli ayatollah fosse in vigore un embargo. Quindi, conquistata la collaborazione di Teheran, sarebbe stato facile indurre i miliziani libanesi a liberare gli ostaggi. Il morale degli americani sarebbe salito alle stelle e il consenso verso l’amministrazione cresciuto. Ma soprattutto si sarebbe fatta sparire una buona parte dei fondi per dirottarli in Nicaragua. Si diede il via all’azione, alcuni prigionieri furono messi in libertà, ma il “pasticcio” fu scoperto. Reagan ebbe seri problemi politici, gli ideatori della macchinazione si ritrovarono sotto processo e gli Stati Uniti furono condannati dalla Corte internazionale di giustizia, principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, per «uso illegale della forza». Insomma, per comprendere i meccanismi della politica mondiale si debbono conoscere i segreti dell’industria delle armi.
Armi cinesi in Africa
L’Africa, con le sue immense ricchezze naturali, è fondamentale per le economie delle grandi potenze. Prima tra tutte la Cina. Con più di 10mila aziende attive in quel continente, Pechino è in grado di produrrei 80 miliardi di dollari di profitti e da molti anni è diventata leader tra i partner commerciali degli establishment africani.
Nell’ultimo rapporto pubblicato nello scorso marzo dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), la fonte più autorevole in materia di armamenti, più del 60% dei governi africani utilizza attrezzature di fabbricazione cinese.
Dopo anni di monopolio, Mosca sta perdendo il suo primato di principale venditore di armi in Africa, e la Cina nel periodo 2013-2017 ha raggiunto il 27% del mercato locale, mentre nei cinque anni precedenti era al 16%. Un incremento sbalorditivo. Certo, i prodotti made in PRC hanno seri problemi di qualità, ma i cinesi fanno prezzi scontatissimi e questo piace molto a governanti alle prese con bilanci statali dissestati. I cacciabombardieri leggeri JF-17 vanno fortissimo e costano la metà di quelli della concorrenza. Per non parlare dei droni che, nonostante i mediocri risultati ottenuti nelle battaglie contro Boko Haram e la conseguente cattiva pubblicità del governo nigeriano, sono richiestissimi.
La strategia della Repubblica popolare fino a qualche anno fa separava la politica dagli affari. I cinesi compravano materie prime a prezzi vantaggiosi e nello stesso tempo costruivano ponti, reti elettriche, strade, autostrade. Adesso Xi Jinping ha rivisto l’approccio e così nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e Sud Sudan o in Centrafrica Pechino vende armamenti senza alcuna remora, aggirando anche gli embarghi militari che l’Occidente ha imposto a Burundi, Guinea Equatoriale e Zimbabwe.
I mezzi leggeri cinesi sono stati in prima linea nel colpo di Stato contro il presidente Robert Mugabe e dopo le sue dimissioni, il 21 novembre 2017, Pechino ha concesso subito al nuovo governo un prestito di 153 milioni di dollari per la ristrutturazione dell’aeroporto civile di Harare. Nel 2014, durante la sua visita in Giordania, papa Bergoglio aveva detto: «Tutti vogliamo la pace! Ma guardando questo dramma della guerra, guardando queste ferite, guardando tanta gente che ha lasciato la sua patria, che è stata costretta ad andarsene via, io mi domando: chi vende le armi a questa gente per fare la guerra?».
Arsenali nucleari
Dunque, chi sono i maggiori fornitori di armi? E chi i più assidui clienti? E quale meccanismo innesca il commercio bellico? Sergio Serafino Parazzini, professore associato di Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha classificato 131 conflitti in corso nel 2016. Secondo il docente, «lasciando fuori le armi di distruzione di massa, cioè le testate nucleari, il 90% delle quali sono possedute da Usa e Russia (il resto sta negli arsenali di Cina, Francia, Regno Unito, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord), oppure le armi chimiche (di difficile controllo perché i componenti sono a doppio uso, sia civile che militare), nelle zone di conflitto c’è un diluvio di armi tradizionali e di grandi sistemi d’arma (major weapons): aerei ed elicotteri da combattimento, carri armati, mezzi corazzati, cannoni, artiglierie, missili, ecc.». Parazzini spiega che «secondo i dati più recenti diffusi dal SIPRI, tra il 2012 ed il 2016 le forniture di grandi sistemi d’arma sono state appannaggio di Usa e Russia, che si sono contese il primo posto nella maggior parte dei casi, seguiti da Cina, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Ucraina e Spagna». Lo studioso sostiene che «molte vittime sono causate da mine anti-uomo e munizioni/bombe a grappolo che continuano a colpire i civili, in gran parte bambini, anche dopo la fine delle ostilità. Secondo l’ultimo rapporto del Global Burden of Armed Violence, la media annuale mondiale di morti da armi da fuoco nel 2007-2012 è stata di circa 197mila persone: circa un terzo per i soli conflitti in Libia e Siria».
Intricata è l’analisi sul come si articola l’offerta e la domanda di armamenti. «Alla base – spiega Parazzini – c’è un bisogno pubblico dello Stato che intende procurarsi strumenti funzionali alla sua difesa e alle sue alleanze. Ogni Paese cerca di avere un’industria nazionale della difesa indipendente, ma se non ci riesce si rivolge a produttori esteri. Però, trattandosi di prodotti di rilevanza strategica, politico-militare oltre che economica, i governi dei Paesi fornitori intervengono con provvedimenti legislativi finalizzati a controllare e gestire questi flussi commerciali ponendo vincoli funzionali al rispetto della loro politica estera e della loro sicurezza nazionale. Le imprese protagoniste possono essere private, pubbliche, miste e lavorare al contempo per il mercato civile nel campo della difesa personale, della caccia o dello sport. Si va dall’austriaca Glock alla belga FN Nerstal; dall’Industia de Material Bélico do Brasil alla China North Industries Corporation; dall’Israel Weapon Industries alla Zastava Arms serba ed altre».
Scenari tenebrosi
Poi c’è uno spazio quantitativamente importante del commercio mondiale di armi fuori dalle statistiche ufficiali. Questo segmento del mercato, spiega Parazzini, «fiorisce nelle zone caratterizzate da tensioni nei rapporti tra Stati confinanti, tra popoli ed etnie diverse, per dispute territoriali, controllo di risorse, attività eversive. Qui si mescolano interessi di attori locali con quelli di governi che ne traggono vantaggio in modo occulto. E si muovono i Signori della guerra o i Mercanti di morte, con ruoli diversi nel business delle armi. Tra i più noti protagonisti di questi traffici c’erano il saudita Adnan Khashoggi, morto nel giugno 2017, e il russo Viktor Bout».
Uno scenario tenebroso, nel quale sono cruciali le relazioni tra i Paesi che vendono e quelli che acquistano. Il mercato, inoltre, si regola non solo a partire da ragioni politico-militari, ma anche sulla base di interessi di carattere economico o finanziario. Parazzini aggiunge che «si barattano commesse di armi con la realizzazione di infrastrutture. Poi la contrazione dei mercati nazionali della difesa per vincoli di bilancio spinge sempre più le imprese del settore a cercare nuovi sbocchi all’estero. Così sono gli stessi governi a favorire contatti e contratti a livello istituzionale. Lo sanno bene Francia, Gran Bretagna e Usa».
Affari a gonfie vele
In Medio Oriente, a causa di una situazione politica molto instabile, il traffico di armamenti è gestito in larga misura dai mercanti d’armi che rispetto ai governi possono muoversi più facilmente. Triangolazioni, operazioni coperte, servizi segreti e trafficanti sono attori di un tragico balletto di morte nel quale i governi agiscono da dietro le quinte.
E l’Italia, quale è il suo ruolo? Il nostro Paese è uno dei maggiori produttori al mondo e secondo i dati in possesso del SIPRI, a dispetto della crisi, nel 2016 l’industria nazionale ha visto una crescita dell’11 %, la più alta d’Europa. L’industria nazionale vende soprattutto aerei e bombe e le nostre esportazioni, sempre nel 2016, hanno raggiunto 14,6 miliardi di euro, con un aumento dell’85,7% rispetto ai 7,9 miliardi del 2015. Il 50% del valore delle commesse, 7,3 miliardi, deriva dalla fornitura di 28 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon prodotti della Divisione Velivoli della Leonardo al Kuwait, che con questa ordinazione è diventato il primo committente per l’Italia. Altri clienti sono Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Arabia Saudita (427,5 milioni), Usa, Qatar, Norvegia e Turchia (133,4 milioni). I Paesi ai quali forniamo armi sono in tutto 82. Oltre gli aerei, i sistemi d’arma più venduti, per un budget di 1,2 miliardi di euro, sono bombe, siluri, razzi, missili e accessori vari.
L’Occidente in corsa per gli armamenti
Anche nel resto del mondo si fanno grandi affari. I soldi per gli armamenti l’anno scorso hanno raggiunto una vetta mai toccata in precedenza, quella di 1.739 miliardi di dollari, cioè l’1 ,1% in più rispetto al 2016, quando si erano spesi 1.686 miliardi di dollari, un po’ meno che nel 2011, anno del picco massimo, 1.699 miliardi. La classifica degli spendaccioni vede al primo posto gli Stati Uniti, seguiti da Cina, Arabia Saudita e India. Il Cremlino, in controtendenza e per la prima volta dal 1998, ha diminuito i costi militari a 66,3 miliardi di dollari, il 20% in meno del budget dell’anno precedente. Il presidente Trump, sia nel 2016 che nel 2017, si è fermato a 610 miliardi, ma ha già annunciato di voler incrementare il bilancio a 700 miliardi per quest’anno.
In Europa la classifica vede nell’ordine Regno Unito, Francia e Germania e Italia. Tuttavia, se la potenza militare di Londra è calata, quella di Parigi è cresciuta. Macron ha rafforzato il bilancio destinato all’esercito e si è accordato con Berlino per costruire un cacciabombardiere super potente in grado di competere con l’F-35 americano e col Sukhoi T-50 russo. Preoccupa la Finlandia che, pur dichiarandosi neutrale, ha aumentato, come la confinante Svezia, il budget per gli armamenti.
La Cina, secondo le previsioni prossima prima potenza economica del pianeta, ha deciso di dotarsi di “armamenti difensivi” consoni al ruolo di superpotenza planetaria. Pechino ha messo a bilancio per le armi 228 miliardi di dollari, il 13% di quanto si spende in tutto il pianeta. La Repubblica Popolare vuole nuovi missili nucleari intercontinentali, nuovi cacciabombardieri invisibili e soprattutto una flotta oceanica.
Un capitolo speciale riguarda l’Arabia Saudita. Riad, grande finanziatore delle milizie islamiste in Siria, protagonista della feroce guerra nello Yemen e in competizione con l’Iran per diventare la più armata potenza della regione, ha speso lo scorso anno 69,4 miliardi di dollari, il 9,2% in più del 2016. II regno wahabita ha acquistato aerei, carri armati, feted altri sistemi d’arma dagli americani, ma anche in Italia.
E intanto cresce la fame
In America Latina il Venezuela, anche se il bilancio dello Stato è disastroso, ha comperato dalla Russia un centinaio di cacciabombardieri Sukhoi 30 ed un migliaio di carri armati mettendo in allarme il Brasile che, a sua volta, ha deciso di incrementare i fondi per le forze armate ordinando alla Svezia diversi jet Saab JAS 39 e dotandosi di nuovi reparti corazzati. La guerra, quindi, è morte e distruzione, ma anche denaro e ricchezza. I governi coinvolti nei conflitti spesso alimentano la propria industria nazionale
delle armi arricchendo se stessi ed ì produttori. L’Italia è uno dei principali protagonisti di questo mercato ed in Medio Oriente in particolare gioca un ruolo cruciale. Nel 2016 le nostre fabbriche hanno fornito ai governi locali armi e munizioni per 161 milioni. Siamo l’ottavo esportatore al mondo e la vendita di fucili, mitragliatrici, ordigni, pallottole, munizioni per uso bellico e civile, sempre nel 2016, ha portato nelle casse delle imprese nazionali oltre 1,2 miliardi di euro. A4447 è il codice identificativo che indica i prodotti della Rwm Italia ed è stato trovato sulle bombe impiegate in due attacchi sulla capitale dello Yemen, Sana’a. Rwm Italia fa parte di una holding tedesca ed ha sede legale a Ghedi in provincia di Brescia. L’azienda fabbrica anche bombe a Domusnovas, nel Sulcis-Iglesiente. Da lì i prodotti vanno in Arabia Saudita.
La produzione nazionale di pistole, fucili, munizioni ed altro è concentrata a Brescia, La Spezia (dove opera Oto Melara, la società assorbita a inizio 2016 da Leonardo) e Roma, ma ci sono stabilimenti in altre province come Lecco, Urbino, Livorno e Napoli. Intanto il rapporto The State of Food Security and Nutrition in the World 2017 curato da Fao, Ifad, Unicef, Wfp e Oms ci dice che la fame nel mondo è tornata a crescere, colpendo 815 milioni di persone, l’11 % della popolazione mondiale. Basterebbero solo pochi spiccioli dell’enorme budget speso in armamenti per debellarla del tutto. Utopia.
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