Una settimana a casa dopo tre anni è niente o poco più. Oppure, come sembra, se il tutto è nel frammento, questo tempo potrebbe bastare per abbozzare cammini, orientamenti e mappe mentali del percorso come il futuro potrebbe interpretarlo.
Vicinanza e lontananza giocano a rimpiattino negli occhi e nelle parole dette e ascoltate quando a parlare è il silenzio di ciò che si è lasciato altrove. Si percepisce, fin da subito, come una ferita che stenta a rimarginarsi perché le condizioni che l’hanno generata sono immutate.
Essa sembra attraversare, come un sottile filo amaro, gli occhi, le relazioni, i volti, le distanze tra le persone, l’immaginario simbolico che stenta a riprendersi come si fosse vissuta una grottesca offesa sociale. Una ferita che si traduce in un sentimento che potremmo nominare tristezza.
Le ‘passioni tristi’ citate da un libro di anni fa di Miguel Benasayag e Ghérard Schmit,che riprendono a modo loro un’intuizione del filosofo Baruch Spinoza.
Non c’è da farsi ingannare dalle false risa delle feste, sagre e spettacoli a carattere estivo che sembrano riportare ciò che si presume essere la ‘normalità’. Si percepisce, invero, un senso di ‘anormalità’ in diversi aspetti della fabbrica sociale. Dalle maschere a coprire il volto, molto ben presenti negli edifici religiosi, profani e mezzi di trasporto, per passare alla conferma della perdita dei posti di lavoro.
Si gioca con precarie ricollocazioni lavorative avvilenti e frustranti a causa delle conseguenze del rifiuto dell’imposizione del fin troppo noto ‘vaccino’. Una finzione societaria che non inganna chi torna, dopo un lasso di tempo sufficientemente denso, con gli occhi che la sabbia del Sahel ha levigato e reso meno ‘addomesticabili’.
Non c’è da farsi sedurre perché, sotto la vernice del consumo facilitato e auspicato da ogni parte, cova una crisi la cui portata sfugge agli spettatori meno consapevoli del teatrino. Quest’ultimo, da tempo, è stato finalizzato a distrarne l’attenzione.
L’assuefazione ai controlli di ogni tipo, sanitari, facciali, comportamentali e sociali non fanno che anticipare un futuro quantomeno simile ai crediti sociali di bolognese e cinese memoria. La dematerializzazione crescente della realtà sembra essere accettata con disinvoltura e con fatale rassegnazione.
I diritti personali, fondanti e riconosciuti dallo stato che assomiglia sempre più al Leviatano dipinto da Thomas Hobbes per garantire la pace sociale, sono stravolti, calpestati e affidati a tecnici asserviti al progetto globale di demolizione politica della democrazia e dunque dei poveri.
Già i poveri, resi invisibili, silenziati e manipolati da faccendieri che hanno preso in ostaggio il popolo che a loro interessa per servirsene come merce di scambio per la loro gloria.
Ma è soprattutto lei, la paura e che a sua volta genera il sospetto, che sembra predominare nelle mani, gli occhi e gli sguardi. Paura di vivere che insinua poi quella di morire,
assenza lancinante di bambini lungo le strade e, invece, cani di ogni razza, tipo e statura a volontà.
Per chi arrivasse per la prima volta in questa strana ed effimera porzione dell’occidente ne rimarrebbe scandalizzato, così come accade per altri comportamenti e usi e costumi libertari in apparenza. La deliberata sottomissione è un sottoprodotto della paura e del sospetto che ci siano traditori ovunque, costituisce la trama dell’attuale implosione politica.
Rimangono loro, per fortuna. La parte di r-esistenti che non si sono, finora, svenduti al miglior acquirente sul mercato della tristezza e ignominia. Nascosti o apertamente liberi che, nel loro piccolo, inventano modalità differenti di società al quotidiano. Vinceranno perché perdenti e perché faranno forse alleanza con coloro che raggiungeranno l’Occidente.
Se non è tardi, i volti, le parole, le storie e le sagge follie del Sud del mondo arriveranno, migranti e, se lo vorremo, ci salveranno.
P. Mauro Armanino, Casarza Ligure