Il Museo Civico Archeologico di Bologna dedica una superba mostra all’arte africana, tradizionale e moderna. Un’occasione unica per comprendere le culture dell’Africa attraverso l’espressione artistica. L’esposizione è curata da Gigi Pezzoli, insieme al compianto Ezio Bassani (scomparso lo scorso anno), e si articola in nove sezioni.

Il curatore, presidente del CSAA, Centro Studi Archeologia Africana di Milano, la presenta come “la più ampia esposizione sull’arte africana realizzata in Italia”.

“Delle arti africane (trovo più corretto parlarne al plurale) si sa in generale ancora poco – afferma Pezzoli. Non solo la loro conoscenza, ma anche la loro costruzione come oggetti di conoscenza, sono portati coloniali, filtrati dai criteri classificatori occidentali, influenzati dalle richieste del mercato, deformati dai pregiudizi. Le arti africane sono state considerate infatti senza tempo, anonime e senza artisti”.

Gli artisti europei del Novecento scoprono l’arte primitiva africana

Da un punto di vista logico e antropologico questa visione non ha fondamento, ma ha rappresentato una scorciatoia per risolvere in un colpo solo tante questioni. Anche la “scoperta dell’art nègre” da parte delle avanguardie europee del ’900 è stata strumentale.

Continua Pezzoli: “A Picasso, Matisse, Brancusi non interessava capire la specificità delle arti africane, bensì trovare un puntello esterno e vigoroso per la loro rivoluzione estetica”. Il loro sguardo (a cui è dedicata una delle nove sezioni della mostra) ha avuto un significato artistico rilevante, ma farne “la” chiave di lettura storico-antropologica per il riconoscimento dell’intera arte africana è stata una mossa azzardata e teoreticamente insostenibile. “Questa mostra non ha tuttavia la pretesa di spazzare via ogni mistificazione”, prosegue Pezzoli. “Aspira a dare un contributo di chiarezza circoscritto, in vista di una narrazione diversa”.

Oggi siamo in grado di documentare come il razzismo culturale verso l’Africa sia stata un’invenzione relativamente recente, che risale al cosiddetto secolo dei lumi. Prima della classificazione delle razze umane di Linneo (cfr. la decima edizione del Systema Naturae, 1758) e delle teorie sull’inferiorità morale e intellettuale dei neri utilizzate per giustificare e incoraggiare l’annientamento delle culture africane, nel continente erano fiorite civiltà di livello altissimo: il regno di Ife, nell’attuale Nigeria, o l’impero del Mali.

I viaggiatori europei le conoscevano e le apprezzavano. Nel 1668, lo scrittore olandese Olfert Dapper pubblicava la Descrizione dell’Africa e parlava con toni entusiasti della capitale del Regno del Benin. Il palazzo reale, raffinatissimo, era più vasto della città di Harlem, con gallerie grandi come quelle della Borsa di Amsterdam, sorrette da pilastri decorati con placche che riportavano delle storie locali. All’arte della corte del Benin è dedicata un’intera sezione. Un’altra è focalizzata, invece, sugli avori afro-portoghesi commissionati ad artisti locali, che li realizzavano appositamente, e importati in Europa. Sono oggetti preziosi e cesellati con cura, che testimoniano un livello manifatturiero eccelso.

L’Italia e l’arte dell’Africa Nera

La sezione Mostra di Scultura Negra, Venezia 1922, curata specificatamente da Pezzoli, ricostruisce la prima pioneristica esposizione di arte africana fatta in Italia. Curata dall’archeologo Carlo Anti e dall’antropologo Aldobrandino Mochi, proponeva 33 opere, provenienti in prevalenza dall’attuale Repubblica Democratica del Congo. Era un progetto quasi avveniristico, per via del focus artistico e non etnografico. Proprio per questo fu stroncata dalla critica. Questa bocciatura senza appello avrebbe portato alla rimozione dell’arte africana dal dibattito culturale e dalle manifestazioni artistiche in Italia per lunghi anni.

Nell’ultima sezione si affronta finalmente la questione della relazione e del mancato dialogo tra antico e contemporaneo. Fanno qui la loro comparsa artisti di rilievo, come il ghanese El Anatsui, Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2015, o Malala Andrialavidrazana. Per cogliere la portata di questa inclusione bisogna fare un passo indietro. Nel 2003 Ezio Bassani curò per la Galleria di Arte Moderna di Torino la mostra Africa. Capolavori da un continente, un progetto espositivo ambizioso, che prometteva di riassumere l’intera arte del continente, ma si fermava curiosamente al ’900, riservando al contemporaneo una sola sala: dentro c’erano solo le avanguardie europee. Seguirono molte, fondate polemiche.

Artisti africani contemporanei

Nel 2003 l’arte contemporanea africana non poteva più essere considerata un oggetto misterioso, soprattutto per gli addetti ai lavori. C’era già stata al Centre Pompidou la collettiva Magiciens de la Terre, che aveva portato in Europa le opere di Frédéric Bruly Bouabré, Bodys Isek Kingelez e altri; erano già nate – sotto egida francese – la Biennale di Dakar e Les Rencontres de la photographie di Bamako. Soprattutto, da ben 12 anni, Jean-Loup Pivin e Simon Njami pubblicavano a Parigi la Revue Noire, che raccontava e documentava con uno sguardo complesso quel che accadeva sulla scena artistica in Africa e nella diaspora africana.

Insomma, l’omissione di Torino non trovava giustificazioni, se non nel pregiudizio dell’arte immobile e anonima. A Bologna si è lavorato in una direzione nuova anche in questo senso. E, in fondo, è lo stesso titolo della mostra a rimarcarlo. Ex Africa prende spunto dalla famosa frase di Plinio il Vecchio “semper aliquid novi Africam adferre” che, nella vulgata popolare, sarebbe diventata “ex Africa semper aliquid novi”.

Dall’Africa arriva sempre qualcosa di nuovo. In questo caso, nuovo è finalmente lo sguardo sull’arte del continente e i suoi protagonisti: uno sguardo, almeno nelle intenzioni, decolonizzato, disposto a spostarsi, allungarsi e mettersi in discussione.

Ex Africa. Storie e identità di un’Arte universale, Museo Civico Archeologico di Bologna, dal 29 marzo all’8 settembre 2019

Di Stefania Ragusa, su Nigrizia di aprile 2019