Francesco Filippi prosegue il suo lavoro di purificazione della memoria collettiva di noi italiani. In un nuovo libro mette a fuoco il nostro passato coloniale. Una ferita non del tutto sanata per alcuni, un vuoto di memoria per molti. La sua efficace ricostruzione storica è la base per riconsiderare tanti nostri preconcetti e false ricostruzioni.
L’autore del libro “Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie”, Francesco Filippi, si definisce “storico della mentalità”.
In effetti nel libro è centrale il concetto di “memoria collettiva”, o “coscienza collettiva”. Entrata nella teoria sociologica già cent’anni fa, la memoria collettiva è il modo in cui il passato è integrato nella personalità di un popolo, un passato molto spesso mitizzato o aggiustato, giustificato o idealizzato, ma in molti casi poco coerente con i fatti e la verità storica.
La memoria collettiva
Operare sulla memoria collettiva provoca spesso disagio, perché costringe a rivedere l’idea che un popolo si è fatto di sé, innesca il processo della rielaborazione del proprio passato. Questo però è un processo necessario affinché i fatti siano sganciati dal sentimento, ed affidati definitivamente al giudizio storico.
Il libro di Filippi è un ottimo stimolo ad operare questo passo verso la maturità, in un ambito, quello del nostro passato coloniale, in cui tra noi italiani domina l’ignoranza e il pregiudizio.
Ottimamente documentato, l’autore ricostruisce anzitutto la genesi dell’avventura coloniale italiana, che lui definisce “accidentale”. “Cosa spinge uno Stato sovrano a invadere territori fuori dai propri confini – si chiede l’autore – per insediarvi degli avamposti in cui imporre nuovi assetti politici, economici e culturali?” La risposta è sconsolata: spesso solo “un vuoto di politica internazionale o la benevolenza della superpotenza di turno” (pag. 17).
L’acquisto della Baia di Assab
In effetti, focalizzando l’atto generativo delle imprese coloniali italiane, l’acquisto della baia di Assab sulle coste del Mar Rosso, troviamo la condiscendenza degli inglesi e i loro disegni per contrastare la Francia.
È infatti incoraggiato dagli inglesi, a cui era andata di traverso l’occupazione francese di Gibuti, che l’esploratore Giuseppe Sapeto il 15 novembre 1869, a nome degli armatori Rubattino di Genova, firma con i due fratelli sultani di Assab un contratto di acquisto di alcune loro terre.
Si noti bene che non è lo Stato italiano (in quegli anni non ancora pienamente riunificato), ma dei privati che negoziano la proprietà di alcune terre, per delle finalità commerciali, e cioè le ricadute dell’apertura del canale di Suez, avvenuta 2 giorni dopo.
Ma non sarà un buon affare per l’armatore genovese: sull’orlo del fallimento, nel 1882 si vuole sbarazzare di quella baia sul Mar Rosso, terre aride che non hanno generato nessun provento, ma solo debiti.
Erano gli anni della corsa all’Africa e proprio nel 1882 il governo italiano aveva dovuto subire lo “schiaffo di Tunisi”, gli accordi presi sotto banco dai francesi con gli emiri tunisini per estromettere gli italiani e firmare vantaggiosi accordi di protettorato.
La nascita dell’Eritrea, la colonia “primigenia”
Per risollevare il prestigio nazionale e accattivarsi l’opinione pubblica il primo ministro Depretis fa approvare al Parlamento l’acquisizione della baia di Assab.
La retorica del tempo fa leva sulla “missione civilizzatrice” dell’Italia nei confronti di quelle popolazioni “semi-primitive”: “Io raccomando che si vada lì con idee di vera civiltà, e non con idee di conquista, con idee di civilizzare quelle popolazioni che vorranno liberamente aggiungersi a noi”, tuona dalla tribuna di Montecitorio, sommerso dagli applausi, l’onorevole padovano Alberto Cavalletto (pag. 23).
Come sempre abbiamo fatto noi italiani nella nostra storia, ai proclami seguono raramente i fatti. Ed infatti per due decenni la colonia, battezzata Eritrea, è quasi dimenticata e abbandonata alle maniere rudi di alcuni militari, che con l’inganno e la forza cercano di allargare i confini della colonia.
La disfatta di Adua
Un brusco risveglio dell’opinione pubblica si ha nel 1896, quando ad Adua, in un tentativo di aggressione all’Impero del Negus, l’esercito coloniale italiano viene sbaragliato da quello etiopico, lasciando sul campo quasi 5.000 morti e 2.000 prigionieri, senza contare i caduti tra gli àscari, le truppe eritree. Il governo Crispi, di sinistra, viene scosso da un’ondata di indignazione nazionale, e alla fine cade, trascinando nella polvere i sogni di potenza coloniale.
Ancora una volta in soccorso dell’Italia viene l’Inghilterra, che propone l’acquisto di vasti territori della costa affacciata sull’Oceano Indiano, che dal Kenya sale verso lo stretto di Aden, quella che noi oggi chiamiamo Somalia. L’Inghilterra è sempre timorosa delle mire espansive della Francia nell’Africa Orientale. E così l’opinione pubblica è sviata e la ferita di Adua lenita.
Le avventure coloniali in Cina
A cavallo del secolo la bramosia di diventare una potenza coloniale, al pari di altre nazioni europee, si riaccende nella vicenda dell’acquisizione della “Concessione di Tientsin” (oggi Tianjin), alcune terre disabitate e paludose nella baia di Shangai. È scoppiata la guerra dei boxer e vari Paesi europei si coalizzano per dare una lezione alla Cina, e l’Italia ne approfitta.
L’autore dedica delle interessanti pagine a questa avventura coloniale italiana, quasi sconosciuta.
Ma l’obiettivo ricorrente delle mire italiane è un altro, e non lontano dalle proprie sponde: per bilanciare la perdita della Tunisia l’Italia cerca l’occasione propizia per occupare la Cirenaica e la Tripolitania, allora sotto il dominio di sultanati dipendenti dall’Impero Ottomano.
E infine la Libia
E l’occasione arriva nel 1911: in un momento di tensione tra le grandi potenze europee, e di crisi dell’Impero Ottomano, l’Italia forza la mano ed invade le coste libiche. Sarà una guerra sporca, in cui l’Italia userà tutti i mezzi per spezzare la resistenza dei fieri combattenti libici. Soprattutto quando tenterà di occupare l’interno, l’insidioso Fezzan. Un’altra colonia buona sola a cullare i sogni di gloria, ma una voragine per il bilancio statale e una tomba per migliaia di soldati.
Il fascismo e la guerra d’Abissinia
Un capitolo nuovo del colonialismo italiano lo scrive il fascismo, con l’aggressione all’Etiopia e la proclamazione dell’Impero.
L’autore non dedica molte pagine alla ricostruzione storica, dato che è un periodo storico molto più documentato e studiato, e anche un lettore smemorato e distratto non può dire di non aver mai sentito parlare dei massacri perpetrati dall’esercito italiano, affiancato dai volontari delle camice nere, dell’uso dei gas nervini per reprimere la resistenza della popolazione dei villaggi, del bagno di sangue di civili etiopi dopo l’attentato a Graziani.
Dopo la ricostruzione storica della prima fase del colonialismo italiano, quello seguito all’Unità d’Italia, l’autore dedica un ampio capitolo al “racconto pubblico attorno alle colonie: chi racconta agli italiani la situazione nelle colonie e come lo fa” (pag. 74).
Ecco come si forma la memoria collettiva di un popolo: il modo in cui i fatti storici vengono spiegati all’opinione pubblica e piegati al mito della nazione.
La narrazione pubblica delle colonie
Un excursus sugli articoli di stampa e di riviste specializzate mette a nudo un campionario di illusioni e menzogne. Un esempio, a pag. 75, tratto dalla rivista “La cultura”: “La nostra influenza in Africa si è estesa per il solo effetto della nostra superiorità intellettuale e morale, delle nostre attitudini e della nostra missione civilizzatrice, che sola può legittimare le conquiste dell’Europa in Africa. Quivi possiamo dire che non abbiamo più nemici. Le tribù vicine cadono una dopo l’altra nella nostra sfera di influenza per simpatia, per interesse, diremmo quasi per forza di gravità.”
L’inizio del Novecento è marcato dalla diffusione delle idee razziste e suprematiste, e i giornalisti dell’epoca si lasciano avvolgere, molto acriticamente, da questa mentalità.
Riporto solo i significativi titoli dei paragrafi di questo capitolo: “Perché siamo qui? 1: ‘occupiamo terre di nessuno’; 2: ‘siamo la modernità contro il medioevo’. Raccontare lo stereotipo per rafforzare il pregiudizio. La ‘bestialità’ del colonizzato messa in mostra. Masse informi e senza storia, una razza inferiore. L’immaginario erotico coloniale.”
Numerose le citazioni da articoli di giornale, i riferimenti alle mostre coloniali, la presentazione delle colonie nei libri scolastici, le cartoline, i cinegiornali, il cinema dell’epoca. Per concludere: “Una non accettazione dell’Altro che passa drammaticamente attraverso la continua disumanizzazione del conquistato, dipingendolo con i tratti della diversità inconciliabile. La diversità dal modello vincente è la condanna dei colonizzati, e questa diversità viene alimentata costantemente dalla propaganda” (pag. 84).
La privazione delle colonie
Arriviamo alla fine della Seconda Guerra Mondiale: l’Italia, sul banco degli sconfitti, è privata di tutte le sue colonie, senza sconti, né repliche.
Un brutto colpo per la memoria collettiva coloniale italiana. Che quindi si deve adattare a questa umiliazione. La tesi di Filippi è che si mette un moto un meccanismo di rimozione del passato coloniale italiano, le sue colpe, i suoi insuccessi, una parentesi storica sempre più identificata con il vituperato fascismo.
L’Italia abbandona quasi a se stessi gli italiani che vogliono rimanere nelle ex-colonie, e accoglie molto freddamente i coloni che rientrano, con poche cose nelle valigie. Non c’è nessuna voglia di ascoltare le loro storie, le loro richieste, le loro confessioni: c’è solo fretta di archiviare una pagina ingloriosa della storia nazionale. E questi ex-coloni devono tenere per sé i sentimenti di risentimento e rivalsa verso quelle popolazioni che con grande sacrificio hanno “accompagnato alla civiltà”, “colonizzati infidi e traditori”.
“Non solo non si fanno i conti con il passato coloniale, ma le vicissitudini degli italiani”, ritornati, o rimasti in posizione non più dominante, “amplificano la sensazione di essere stati addirittura ‘troppo buoni’ con i colonizzati, i quali si dimostrano ‘ingrati’ nel misconoscere l’impegno di migliaia di italiani per la loro civilizzazione” (pag. 122).
La narrazione degli anni dopo la perdita delle colonie è tutta venata da questa costatazione amara: tutto quello che di buono si trova oggi nelle ex-colonie è frutto del lavoro italiano, le infrastrutture, le strade, i porti, le moderne città, tutto è stato realizzato con il sudore e il sacrificio di migliaia di coloni. Non lo si scrive esplicitamente, ma lo si pensa: “e i locali da soli non sono più riusciti a fare nulla”:
La nuova politica estera italiana
Dopo quei primi anni, in cui l’Italia si deve leccare le ferite del trattamento subito dalle nazioni vincitrici, il tema delle ex-colonie scompare dal dibattito pubblico. L’Italia guarda avanti, e con malcelata soddisfazione si consola osservando quelle stesse nazioni che l’hanno umiliata, ora alle prese con i seri problemi della decolonizzazione.
Anzi, a livello internazionale, l’Italia adotta una politica estera internazionalista e terzomondista. Con un po’ di trionfalismo, De Gasperi nel 1950 illustra questa nuova politica estera ai deputati italiani: “Ora i nostri amici devono essere le nazioni che aspirano alla libertà, che aspirano all’indipendenza. Tutto questo significa la ripresa dell’antica politica italiana, la politica del Risorgimento” (pag. 127).
La rimozione
Per circa tre decenni il tema delle ex-colonie viene rimosso dalla memoria collettiva. Stampa, radio, televisione, e tutta la pubblicistica, ma anche il mondo accademico: parlare del passato coloniale non interessa più nessuno, c’è come un vuoto, un’indolenza a mettersi a scrivere di questioni che ormai hanno trovato una loro spiegazione, e che non giova a nessuno riproporre.
La spiegazione è la seguente: “È il fascismo che ha portato avanti una massiccia opera di propaganda, rivolta all’esaltazione dell’ideale imperiale incarnato dal colonialismo. Una volta caduto il fascismo è possibile dire che il colonialismo è stato uno dei grandi fallimenti, una delle grandi vergogne gettate sulla coscienza del Paese” (pag. 128).
E continua l’autore: “Proclamandosi antifascista, la Repubblica democratica nata dalla Resistenza afferma serenamente di non dover fare i conti con il proprio passato coloniale, dato che non riconosce quel passato come proprio. È uno schema concettuale: scaricare sul fascismo qualsiasi colpa e poi dichiararlo espulso dall’eredità memoriale – e quindi dalla responsabilità storica – degli italiani” (pag. 128).
Gli abbiamo costruito le strade
La memoria collettiva in quegli anni è nutrita da confronti tra il colonialismo italiano e quello dell’Inghilterra e della Francia, che vedono sbriciolarsi i loro imperi, e ridimensionarsi il loro ruolo sullo scacchiere internazionale.
E prende sempre più forma il mito delle strade lasciate dagli italiani nelle ex-colonia, segno di civiltà e di bontà dell’opera italiana.
Con efficacia, basandosi su corrette argomentazioni, l’autore smonta questo mito, alle pagine 137-141: “la gran parte dello sbandierato sistema viario imperiale è costituito per lo più da dispendiose infrastrutture destinate a uso propagandistico e da una realtà di abbandono e di spreco” (pag. 139-40).
La comunità italo-eritrea
L’ignavia italiana, che si nasconde dietro le presunte grandi infrastrutture lasciate agli ex-colonizzati, si manifesta in un altro vergognoso episodio: la non-reazione a livello di comunità internazionale all’annessione dell’Eritrea da parte dell’Etiopia, e poi l’accettazione passiva delle politiche etiopi per eliminare il legame anagrafico degli italo-eritrei alla madre patria.
L’Italia non intraprende nessuna azione diplomatica, anzi pone delle difficoltà burocratiche ai meticci che vorrebbero ottenere la cittadinanza italiana e emigrare in Italia. Infatti questi meticci troveranno più accoglienza in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Il mandato fiduciario sulla Somalia
L’Onu affida all’Italia il compito di accompagnare all’Indipendenza la sua ex-colonia, unita al Somaliland britannico. L’Italia avrebbe l’occasione di riscattarsi, di mostrare la mondo la sua buona fede, ma perde anche questa occasione.
Anzitutto c’è il pasticcio della nomina a “Commissario generale al trapasso” di Guglielmo Nasi, fascista, già Vicerè d’Etiopia, che il governo etiope aveva inserito nella lista dei criminali di guerra. Davvero una brutta figura per De Gasperi che l’ha proposto.
Ma la lezione proprio non l’ha imparata: De Gasperi permette una presenza massiccia degli ex funzionari coloniali fascisti tra il personale italiano dell’Amministrazione fiduciaria della Somalia. Il governo si giustifica con il fatto che non ha altro personale formato. Ma così il metodo di governo usato da questi ex-oppressori non potrà che seguire i canoni del passato.
L’altra incapacità dell’Italia è quella di non aver saputo amalgamare le strutture di governo locale e le due legislazioni, quella di stampo italiano e quella inglese. L’influenza britannica prevale sulla Somalia italiana, e nel 1960 la nuova costituzione del Paese indipendente adotterà l’inglese come lingua nazionale, relegando l’italiano a lingua opzionale per accedere alle facoltà universitarie che il governo italiano ha aperto.
La Somalia indipendente, come si sa, avrà una storia tormentata, e l’Italia manterrà ben volentieri le distanze, lasciando l’iniziativa ad altri Paesi occidentali.
La nuova storiografia
L’analisi storica della memoria collettiva che fa l’autore si ferma più o meno agli anni ’80 del secolo passato. La nuova fase, più critica e obiettiva, degli storiografi italiani più vicini a noi, non viene approfondita, ma solo accennata.
Gli studi sul nostro passato coloniale si sono moltiplicati negli ultimi decenni, ad opera soprattutto di storiografi giovani e meno implicati emotivamente nelle vicende.
Anche nella letteratura degli ultimi anni sono apparsi lavori notevoli, come il romanzo, basato su dati storici inoppugnabili, Sangue giusto, di Francesca Melandri, o L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli, e tanti altri, tutti caratterizzati dalla volontà di fare la verità, di presentare la società coloniale come era veramente, lavando finalmente i panni sporchi in pubblico.
Notevole anche il romanzo dell’etiope Maaza Mengiste, Il re Ombra, ambientato durante l’occupazione italiana in Etiopia, vista con gli occhi degli occupati.
Una nuova memoria collettiva
Hanno contribuito alla purificazione della memoria collettiva anche scrittori e giornalisti afro-italiani, come Igiaba Scego, o la più giovane Umuhoza Delli. Anche il cinema ha operato un notevole rinnovamento nel trattare il razzismo degli italiani, e nello smontare il mito degli “italiani brava gente”.
Dunque, la memoria collettiva del colonialismo italiano sta decisamente rinnovandosi, e le nuove generazioni sapranno affrontare le vicende del passato con più obiettività.
Nell’ultimo capitolo del suo libro l’autore passa in rassegna alcuni “rigurgiti”, rimasugli della mentalità del passato, che sarebbe necessario curare definitivamente.
Anzitutto alcune espressioni della lingua parlata, che, scrive Filippi “porta con sé un apparato immaginario molto stabile nel tempo” (pag. 147): ad esempio l’espressione “fare un ambaradam”. Chi la usa dovrebbe sapere che si riferisce alla battaglia di Amba Aradam, del 1936, nel quale l’esercito coloniale italiano ebbe la meglio sulla strenua resistenza degli etiopi solo con un uso massiccio dei gas e di altri agenti chimici. Un vero crimine di guerra, che meriterebbe il rispetto della lingua parlata.
Stradario coloniale
E a Roma c’è pure una fermata della metropolitana che porta il nome di quella triste località, e a nulla sono valse, finora, le richieste di indicare la fermata con un altro nome.
Questo apre il capitolo spinoso della memoria del colonialismo nello stradario italiano, nel quale si trovano moltissimi nomi, per lo più di località, che rimandano al nostro passato, come abbiamo visto non propriamente glorioso, in Africa.
Non si tratta di abbattere statue o rimuovere monumenti, come negli Stati Uniti, ma di apporre nelle targhe delle spiegazioni più obiettive, e di portare questa problematica nella scuola, formando le nuove generazioni a un approccio corretto al proprio passato.
Il cinema
L’autore ha diverse pagine interessanti sull’evoluzione della percezione del nero in alcune pellicole, e delle reazioni dei critici e del pubblico, ad esempio Indovina chi viene a cena?. Erano gli anni in cui Sordi interpretava I due nemici, e Finché c’è guerra c’è speranza, che abbondano nel condiscendere a stereotipi e pregiudizi popolari. Fino al più recente Le rose del deserto, il cinema italiano non ha ancora avuto il coraggio di denunciare gli abusi del colonialismo, e il razzismo che emerge nella vita quotidiana.
Una sola parola per citare un film controverso: Il leone del deserto. Il film fu voluto da Gheddafi per ricordare e esaltare la figura di Omar al-Mukhtar, eroe libico della resistenza agli italiani, e da loro giustiziato. Nel film naturalmente i coloni italiani non fanno bella figura. Uscito nel 1981, fu bloccato dalla censura italiana. E per quasi tre decenni ne fu proibita la proiezione, finché nel 2009 venne proposto da Sky ai suoi abbonati.
Rimando al lettore altre due questioni su cui l’autore spende diverse pagine: l’operazione Restore Hope in Somalia, e la restituzione dell’obelisco di Axum (pagg.162-173)
Girare definitivamente la pagina, per un nuovo approccio con l’alterità
Arrivati in fondo al libro, affido alle parole dell’autore le conclusioni per tutti: “La lingua, l’arte, la comunicazione, la letteratura, l’intrattenimento, perfino i nomi di strade e piazze continuano a portare avanti un ‘discorso sull’Altro’ inficiato dalla lunga parentesi storica iniziata con l’acquisizione di un lembo di deserto nel Mar Rosso e che non sembra ancora essersi chiusa” (pg. 174).
Dunque, “Vi è una vera e propria necessità, oggi, di affrontare a livello pubblico le questioni riguardanti il passato del nostro Paese in quanto dominatore e invasore, perché senza questa proiezione nella nostra storia diventa impossibile costruire un approccio cosciente ai problemi dell’alterità oggi: dall’immigrazione al rapporto con le altre culture, dalle norme sul diritto d’asilo a quelle sulla cittadinanza, fino alla quotidiana percezione dell’altro nella vita di ognuno di noi, l’Italia oggi ha bisogno della sua storia d’oltremare” (pag. 178)
P. Marco Prada
Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie
di Francesco Filippi
Bollati Boringhieri, 2021, Pagine 208, € 12,00