È l’unica del suo gruppo famigliare ad aver cambiato di Dio. Fatimata è stata battezzata col nome di Sara perchè, così dice lei, Sara è all’origine di tutti i credenti. Arriva con la figlia Debora di due anni e cerca lavoro. Suo marito, di origine togolese, cristiano poi musulmano e infine cristiano, l’ha amato e assieme hanno tre figli. Marie, Jacqueline e la più piccola, Debora. Il papa, quando sarà il momento, avrà anche un maschio e allora vedranno come chiamarlo.
L’hanno espulsa dal gruppo Soninké del Mali dove è originaria. Dice che nel suo gruppo le donne vanno velate fino agli occhi e di preferenza non lavorano fuori casa. Mai mangeranno in un piatto usato da un cristiano per non contaminarsi e, per loro, cambiare la fede è come una condanna a morte. Per questo Sara è scappata e dice che morire non le importa nulla: lei sa dove si trova la verità. Dice che è l’altro Dio che l’ha guarita dalle sue malattie. Ora cerca lavoro perché il marito è disoccupato e hanno l’affitto da pagare. Lui faceva il fornaio e adesso si arrangia come può, con impieghi saltuari nella capitale del Niger.
Sara non è l’unica ad avere cambiato nome, credo e identità. Prendiamo ad esempio il Sahel. Se fossimo coerenti dovremmo chiamarlo in altro modo. Invece di riva o sponda, che è quanto il nome significa, è diventato un campo di battaglia dove c’è posto per tutti. Per tutti un posto tra i fili spinati delle agenzie dell’Onu delle città, coi battaglioni dei contingenti militari, sulle frontiere sempre più aguzze per i migranti e le autostrade di sabbia per droga, sigarette e gruppi armati. Questi ultimi cambiano nome, appartenenza, provenienza, affiliazione e generali.
Non cambiano le strategie che usano la manipolazione religiosa per fini di lucro e di potere spicciolo che l’assenza di altri soggetti politici facilita. Si bruciano scuole, vengono minacciati gli insegnanti delle scuole di stato e ogni altra presenza che disturbi la pace jihadista è considerata nemica e dunque da eliminare. Il tutto condito con azioni militari, progetti di sviluppo, fondi fiduciari, formazione del personale addetto al controllo della migrazione irregolare, visite di capi di delegazioni straniere e promesse di fondi per gestire l’ultima carestia in ordine di tempo.
Sara parla con dolcezza e non si lamenta di nulla. Vorrebbe un lavoro perché il padre dei suoi figli è disoccupato da alcuni mesi. Sono arrivati a Niamey perché la sua famiglia voleva metterla a morte come traditrice della patria religiosa. Non ha timore e sa che la sua vita è in buone mani.
Si chiamava Fatimata e il nome della prima figlia, che si chiamava Myriam è cambiato in Marie. Questione di dettagli che hanno la loro importanza quando si vive in esilio e senza una terra propria da abitare. Lascia un numero di telefono che non funziona e spera un giorno di poter chiamare. Le basta la fede e dice che la forza di andare avanti non viene da lei. Quanto alla piccola Debora di due anni è sicura che da grande farà la profetessa nel Sahel e di sicuro le cose cominceranno a cambiare.
Il Sahel è un crocevia, ossia una via di croce che attraversa, solca e infine trasforma il deserto in una zona di caccia. I cercatori d’oro si moltiplicano e inseguono i cacciatori di frodo che imitano i gruppi ribelli a stampo mafioso che generano le risposte concertate dei militari governativi appoggiati dalle forze straniere. La mutevolezza del Sahel è solo apparente perché non fa che riprodurre gli stessi meccanismi che organizzano il mondo.
Interessi poco mascherati, incetta di risorse, neocolonizzazione dello spazio e soprattutto rapporti di subordinazione tra i centri e le periferie. Le resistenze si organizzano grazie al vento che tutto trasporta e racconta.
Fatimata è diventata Sara e accanto c’è Debora che farà la profetessa non appena ne avrà l’età. Sua madre, che non teme di morire, ne è convinta e così pure gli ostaggi di cui il Sahel si è fatto esperimentato specialista. Il Sahel è già, senza saperlo, una risurrezione di sabbia.
P. Mauro Armanino, Niamey, 11 novembre 2018