Frantz Fanon nacque il 20 luglio 1925 à Fort-De-France, in Martinica. I suoi genitori appartenevano a quella che un tempo si sarebbe definita “piccola borghesia” o classe media. La sua era una famiglia le cui radici discendono dall’Africa, terra da cui i suoi avi furono portati via come schiavi – come accede ad altri milioni di africani – per essere “usati” come manodopera a basso costo nel Nuovo Mondo. Ma per il giovane Fanon, il tempo della tratta dei neri e della schiavitù rappresentava un remoto fatto storico e il suo orientamento critico verso i bianchi e verso la colonizzazione non era ancora emerso. Il giovane Fanon si sentiva vicino alla Francia, tanto che nel 1943, lasciò la terra natia per partecipare come volontario alla Seconda Guerra Mondiale a fianco della Francia Libera.

 

Tuttavia, questo legame con la “colonialista” Francia col tempo andrò scemando: alcuni piccoli semi verso la nascita di uno spirito critico indirettamente furono piantati da un professore del liceo Schoelcher che Fanon frequentò. E quel professore fu Aimé Césaire. Terminata la guerra, Fanon studiò medicina e psichiatria presso Lione. In quel periodo divorò tantissimi libri anche di filosofia e di scienze politiche; scritti importanti di personaggi quali Lévi-Strauss, Marx, Lenin, Hegel, Sartre, Freud. Fanon, dopo essersi specializzato in psichiatria e aver lavorato per un certo periodo in Francia, decise di chiedere un trasferimento in Africa. Ci riuscì e trovò lavoro presso l’ospedale psichiatrico di Blida-Joinville, in Algeria. Ma il suo spirito combattivo e rivoluzionario prese il sopravvento; partecipò alla lotta di liberazione algerina, appoggiando il Front de libération nationale (Fronte di Liberazione Nazionale, FLN). Collaborò alla redazione del giornale El-Moudjahid (Il Combattente) e rappresentò, sul piano diplomatico, il Governo provvisorio della Repubblica Algerina. Morì di leucemia nel 1961 negli Stati Uniti. In seguito, le sue spoglie furono trasportate in Algeria

Rivoluzione e psicologia

Fanon fu un pensatore e intellettuale sui generis, poiché riuscì a unire due mondi apparentemente distanti: quello della psichiatria con quello dell’anticolonialismo. I concetti fanoniani più importanti li troviamo in particolare in due scritti: Pelle Nera, Maschere Bianche del 1952 e I dannati della Terra del 1961. Due opere-simbolo dello spirito rivoluzionario che aleggiava nel cosiddetto Terzo Mondo, durante gli anni ’50 e ’60: testi che evidenziano non solo gli effetti culturali, politici, sociali, ma anche psicologici della dominazione coloniale sui popoli oppressi. Per tale motivo, Fanon è stato definito “l’unico grande scrittore che ha tentato di unire i problemi della liberazione nazionale e la rivoluzione sociale dal privilegiato sguardo della psicopatologia. Solo questo serve a distinguerlo dagli altri teorici politici contemporanei” (si veda Jock McCulloch, Black soul white artifact. Fanon’s clinical psychology and social theory, Cambridge, Cambridge University press, 1983).

In Pelle Nera, Maschere Bianche Fanon afferma: “In quanto psicoanalista, aiuto i miei pazienti a diventare consapevoli della propria inconsapevolezza… ma anche ad agire nella direzione di un cambiamento nella struttura sociale”. La terapia analitica di Fanon verso i suoi pazienti non era dunque puramente psicologica, ma in un certo senso anche rivoluzionaria, in quanto li invitava a un cambiamento sociale, dopo che si era avviata e compiuta in loro la ricerca della propria consapevolezza.

Un mondo a scomparti

L’altra opera rivoluzionaria di Fanon è I dannati della terra nella quale viene sviluppata la sua teoria della violenza applicata al mondo coloniale. Quest’ultimo viene definito da Fanon un mondo a scomparti, caratterizzato da una doppia natura e descritto nel modo seguente:

“La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. I piedi del colono non si scorgono mai, tranne forse in mare, ma non si è mai abbastanza vicini. Piedi protetti da calzature robuste mentre le strade della loro città sono linde, lisce, senza buche, senza ciottoli. La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose buone in permanenza. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri. La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù”.

Negli scritti di Fanon la dicotomia coloni/colonizzati è centrale, in quanto non solo determinava lo sviluppo di due realtà urbane e sociali fra loro contrapposte, ma si manifestava anche a livello culturale: i valori, i modelli di vita dei coloni e dei colonizzatori erano fra loro in antitesi. Secondo Fanon, è il concetto di individualismo che accumuna gli europei, il quale dà vita ad “una società di individui in cui ognuno si rinchiude nella sua soggettività”.

Proprio perché la violenza ha rappresentato l’elemento fondante della colonizzazione, Fanon riteneva l’uso della violenza l’unico possibile e fattibile mezzo per combattere, contrastare ed eliminare il mondo coloniale. Infatti, i rapporti fra i coloni e i colonizzati si sono basati, sin dall’inizio, sulla forza e, quindi, il processo di decolonizzazione per Fanon, non può che assumere una forma violenta. Tuttavia, Fanon non può essere considerato un radicale e strenuo difensore della violenza. Quest’ultima è stata definita da lui come “l’intuizione che hanno le masse colonizzate che la loro liberazione deve farsi, e non può farsi, se non con la forza. Sanno che solo questa follia può sottrarli all’oppressione coloniale”.

In questo senso, la violenza rappresenta l’unico strumento che i colonizzati possono utilizzare per liberare sé stessi dall’oppressione, anche se rappresenta pur sempre uno strumento folle.

Silvia C. Turrin