P. Pier Luigi Maccalli ha rilasciato una lunga intervista al più importante e diffuso settimanale cattolico italiano, Famiglia Cristiana, in edicola questa settimana. Ripercorre i momenti del rapimento e della prigionia, e fa una lettura di fede della sua vicenda: “La mia fede si è rafforzata in questa prova e per nulla al mondo sono disposto ad abbandonarla: anzi ero pronto a tutto”.
P. Pier Luigi, qual è stata la prima cosa che ha fatto?
Piangere di gioia.
Oggi come si sente?
Il sereno dopo la tempesta. Ma ho bisogno di tempo per rielaborare pensieri ed emozioni che tanto mi hanno scosso.
Ci racconta il giorno in cui è stato rapito?
Tutto è cominciato la sera del 17 settembre 2018. Erano passate le 21.30. Mi era già messo in pigiama e stavo per andare a letto. Ho sentito dei rumori dietro la finestra dell’ufficio. Ho chiesto chi fosse, ma nessuno rispondeva. Assicurando io il servizio di distribuzione di medicine del deposito-farmacia della missione per le urgenze notturne, ho pensato fosse qualcuno che avesse bisogno di medicine. Sono quindi uscito per vedere e mi sono trovato davanti tre fucili, ho fatto un balzo indietro … e mi sono ritrovato con le mani legate dietro la schiena. Sono stati attimi convulsi.
Ha capito qual è stato il motivo del rapimento? È riuscito a farsi un’idea?
Quante volte mi sono fatto questa domanda! Non ho trovato nessuna ragione riconducibile al fatto di aver offeso, o parlato male dell’Islam o fatto gesti irriverenti che potessero essere considerati come un’offesa. Ho sempre avuto un rapporto amichevole e cordiale con tutti. Anche la missione è stimata per la sua vicinanza alla gente e per gli aiuti che offre: nelle carestie ricorrenti distribuiamo sacchi di cibo a tutti, senza distinzione di appartenenza religiosa. Alla missione di Bomoanga avevo anche aperto un centro nutrizionale per bambini malnutriti. Le mamme venivano e si fermavano anche settimane con i loro neonati e bambini malati e facevano normalmente la loro preghiera musulmana alla missione. Credo che non ci sia una ragione diretta verso di me, ma piuttosto una politica djihadista di espansione che dal Mali sta scendendo verso il sud. Ha già preso il Burkina Faso e ora è entrata in Niger con un progetto di estendersi a tutta l’Africa occidentale.
Come ha vissuto quei lunghissimi mesi?
I primi sei mesi sono stato in totale solitudine tra le dune di sabbia del Sahara e … pregavo. Non avevo niente, neppure da leggere o scrivere. Mi facevo del the e cucinavo qualcosa da mangiare con un pentolino che mi avevano dato. Erano giornate lunghe, lunghe. Poi mi hanno messo insieme a Luca Tacchetto, giovane padovano rapito nel dicembre 2018 in Burkina Faso e successivamente con Nicola Chiacchio (di Napoli), sequestrato in Mali nel febbraio 2019, mentre andava in bicicletta verso la famosa località di Tinbuktu. Eravamo tre italiani e ci sostenevamo a vicenda.
Come l’hanno trattata i suoi carcerieri?
Generalmente bene. I sorveglianti mi chiamavano shebani (vecchio), la mia lunga barba bianca doveva fare colpo su questi giovani imberbi che mi custodivano. Le parole invece erano a volte offensive verso la mia fede, perché sono un cristiano, e, secondo loro, uno che non è benedetto da Dio, ma condannato all’Inferno.
È stato sempre nello stesso posto o si è spostato?
Ho sopportato continui spostamenti, ma sempre nel Sahara del Mali: ho visto la varietà di questo grande e immenso deserto. Se i carcerieri sentivano il rumore di un drone sopra la testa, e questo insisteva a stare in zona, si cambiava di posto. Un pomeriggio ci hanno fatto scappare a piedi e poi la notte i carcerieri sono tornati a prendere l’auto e smontare il rifugio. Abbiamo cambiato sovente di zona.
Chi e che cosa l’ha sostenuta?
La preghiera. Ripetevo sovente le parole della consacrazione del pane eucaristico: “Questo è il mio corpo offerto Signore, non ho altro.” Recitavo le preghiere imparate da bambino, spezzoni di salmi che ricordavo a memoria e il rosario.
Durante la prigionia pregando ha invocato qualcuno in particolare?
Col rosario pregavo Maria che scioglie i nodi e con la sequenza di Pentecoste invocavo lo Spirito Santo. La missione di Bomoanga è sotto il patrocinio dello Spirito Santo e Pentecoste è la nostra festa patronale. Sul muro della nuova chiesa di Bomoanga (inaugurata nel gennaio 2017) vi è appeso un foglio di compensato su cui ho tradotto in lingua locale la sequenza di Pentecoste. Con la comunità la recitavamo ogni giorno. Maria e lo Spirito Consolatore sono stati la mia forza e il mio sostegno.
La fede ha mai vacillato?
La mia fede si è rafforzata in questa prova e per nulla al mondo sono disposto ad abbandonarla: anzi ero pronto a tutto. Il mio pensiero era rivolto costantemente alla famiglia. Questa situazione stava dando un forte dispiacere ai miei familiari e a tante persone che mi vogliono bene, questo mi faceva soffrire.
Ha detto che la prigionia le ha permesso di sentirsi in comunione con tutte le vittime innocenti di violenza e guerra …
In questi due anni ho fatto l’esperienza del deportato di guerra. E la prigionia mi ha permesso di sentirmi in comunione con tutte le vittime innocenti della violenza e delle guerre: noi missionari siamo sovente facili bersagli di vendette e di persecuzioni in molte parti del mondo. Ma siamo vittime innocenti e testimoni di un mondo di fratellanza in cui lo Shalom trionferà sul male. Crediamo che “giustizia e pace si baceranno e verità e amore si incontreranno”.
Si è sentito missionario anche in catene …
Mi son sentito in comunione con gli apostoli Paolo e Pietro. San Pietro in Vincoli poi, è il patrono del mio paese natio (Madignano), tale padre tale figlio! I miei piedi erano incatenati, ma non la mia fede e nemmeno la missione. La missione è di Dio e lui continua a condurla nel tempo e nella storia. I miei piedi non potevano andare liberamente per piste e villaggi ad annunciare la Buona Notizia, ma il vangelo non è incatenato! Non sono le catene a diminuire nemmeno il mio essere missionario. Il Fondatore della SMA diceva: l’importante è “essere missionario dal profondo del cuore”.
Alcuni suoi compagni di prigionia si sono convertiti all’Islam; lei no …
Si sono convertiti per convenienza, solo di facciata. È stato un modo per tutelarsi e non rischiare il peggio, perché un musulmano che uccide un altro musulmano, soprattutto indifeso, va diritto all’Inferno. Anche con me ci hanno provato. Fino all’ultima sera prima della liberazione. Quello che parlava francese mi ha detto: “Devi sapere che per noi musulmani è importante dirtelo: perché quando saremo davanti ad Allah ci chiederà conto di te. Avete preso un miscredente e non gli avete detto di farsi musulmano?”
Ha mai pianto?
Spesso durante i primi 6 mesi di grande silenzio e solitudine.
Ha avuto paura di morire?
Ho pensato anche a questa eventualità. Ma più i giorni passavano e più mi convincevo che non era quello l’obiettivo del rapimento.
Com’è la situazione adesso nel Sahel?
Era già una polveriera prima ed ora ha preso fuoco. Il livello di allerta si è alzato. A seguito del mio rapimento tutta la zona al confine con il Burkina è diventata zona rossa. Ultimamente, nell’agosto scorso, a seguito dell’uccisione di sei giovani francesi di una ONG che operava a Niamey (capitale del Niger), è diventato zona a rischio tutto il Paese. Così è per il Mali e il Burkina Faso.
Cos’ha provato e cosa prova oggi verso i suoi rapitori?
Provo molta tristezza verso i miei sorveglianti e carcerieri. Sono giovani indottrinati da video di propaganda che ascoltavano tutto il giorno. Li perdono perché non sanno quello che fanno! Anche verso coloro che hanno pianificato il mio rapimento, non porto rancore. Ho pregato per loro e continuo a farlo.
Come riprenderà la sua vita: ripartirà in missione rimarrà qui in Italia?
La mia vita è donata a Dio e all’annuncio del vangelo per il mondo, dal giorno della mia ordinazione diaconale e sacerdotale. Il mio futuro appartiene a Dio. So che sarò sempre in missione, perché missione non è una questione di geografia. Per capire invece il passaggio di Dio in questa esperienza da “deportato” ho bisogno di tempo. Ho bisogno di silenzio per lasciar decantare e poter rielaborare quanto ho vissuto e sofferto. Posso dirvi che una cosa ho già intuito: credevo che mi avessero rubato 2 anni di missione, mi rendo conto che Dio a reso fecondo il “mio ministero da prigioniero” ben oltre ogni mia aspettativa.