Papa Francesco, nel messaggio per la giornata del migrante, che quest’anno si celebra il 27 settembre, afferma: “L’amore, quello che riconcilia e salva incomincia con l’ascoltare. Nel mondo di oggi si moltiplicano i messaggi, però si sta perdendo l’attitudine ad ascoltare. Ed è ascoltando, che abbiamo l’opportunità di riconciliarci con il prossimo, con tanti scartati, con noi stessi e con Dio”.

Ascoltare esprime l’esperienza vissuta in questi anni dai missionari della comunità intercongregazionale a Modica, nell’estremo Sud della Sicilia, a pochi km da Ragusa. Ascoltare i ragazzi provenienti da altri paesi, stare in mezzo ai loro disagi, incontrare per conoscere, non lasciare nessuno senza un ascolto o una parola di conforto e vicinanza. È il progetto di questa comunità.

Si ascolta in strada come uno dei missionari che opera da diversi anni e conosce tutti i luoghi di ritrovo dei giovani migranti. La rubrica del suo cellulare è piena dei nomi di questi ragazzi che ha avuto modo di avvicinare nei centri di accoglienza, e poi nelle strade della città quando i centri sono stati chiusi.

Spesso dice: “Come Dio ha scritto i nostri nomi nel palmo delle sue mani, così anche noi siamo chiamati a scrivere, i nomi dei fratelli che incontriamo, nel nostro cuore”. Chiama spesso i ragazzi al cellulare, perché è importante, per chi si trova in un posto lontano da casa e dagli affetti, avere qualcuno che si interessi di loro, anche solo per scambiare due chiacchere. ….

L’ascolto e l’accoglienza consente ai ragazzi di raccontarsi. Mohamed, non senza fatica, parla del suo periodo di detenzione in carcere, perché accusato di essere scafista. Non poteva neanche immaginare cosa significasse manovrare un barcone, in effetti vi saliva per la prima volta….  ma arrivato al primo porto è stato subito arrestato.

Ancora minorenne, dopo qualche mese è stato accolto in un centro di accoglienza, ha fatto il suo percorso, ha imparato l’italiano. Ma la sua vita è segnata dalle privazioni e dalle sofferenze del viaggio, dal carcere, dalle accuse, dalla mancanza della sua terra e della sua famiglia, dal suo sentirsi solo. Eppure è venuto in Italia perché voleva studiare; oramai è maggiorenne e sembra apparentemente tranquillo, interiormente però è distrutto, non sa cosa vuole, spesso è necessario ricorrere allo psicologo.

Azhar ci racconta la sua storia raccapricciante fatta di violenze ripetute nei campi di detenzione in Libia. Ascoltare il suo viaggio in barcone, al termine di una gravidanza con chiari segni di minaccia d’aborto e poi il salvataggio, l’ospedale, la bambina tra le sue braccia, persone indimenticabili che si sono occupate di lei e che l’hanno aiutata a ridare un senso alla sua vita.

Azhar si è integrata, ha imparato l’italiano e sta ricevendo una formazione per diventare mediatrice culturale. Il suo percorso le ha permesso di prendere coscienza delle sue illusioni e dell’appannaggio vissuto nel lasciare la Costa d’Avorio per raggiungere l’Europa.  Con forza invia messaggi alle ragazze del suo paese per spiegare quello che lei ha provato, testimonia la crudeltà che ha sperimentato e cerca in tutti i modi di convincerle a non intraprendere la dolorosa strada che le ha fatto intravvedere la morte.

In carcere Jameel racconta del bombardamento nel suo paese in Libia, della morte della mamma, della sorella e del nipote. Lui stesso è rimasto ferito gravemente al piede oramai storpiato. Ci spiega di sentire ancora il rumore assordante delle bombe, la disperazione per aver perso tutto e la ricerca di trovare una sistemazione per i fratelli più piccoli.

Cercava una nuova vita ed è arrivato in Italia, anche se non era la sua meta. Durante lo sbarco una donna l’ha denunciato come complice degli scafisti e non avendo documenti regolari si è ritrovato in carcere, senza sapere in quale città fosse e con tante domande su come la vita si svolge al di fuori delle mura che lo circondano.

I suoi compagni di cella, sapendo che Jameel non avrebbe mai chiesto nulla, ci hanno segnalato il suo problema al piede perché fino a quel momento nessuno si era accorto della sua difficoltà di camminare e mettere le scarpe.

La sofferenza che popola il cuore di questi uomini e donne è grande, forse incomprensibile, per noi che siamo nati in un’altra parte del pianeta. Ma siamo a Modica perché desideriamo essere al loro fianco e ci adoperiamo perché sentano che non sono “imrati”, “clandestini”, “extracomunitari” come vengono ormai etichettati ma semplicemente persone, fratelli, compagni di viaggio.

Francesca Sarritzu

Notizia pubblicata nel sito dei Missionari Italiani