Oggi, 6 febbraio, Giornata internazionale per la tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili, l’Unicef ricorda che 200 milioni di donne al mondo ne hanno subìto una forma: dalla rimozione dei genitali esterni fino all’infibulazione, la variante più grave che comprende anche una cucitura, tipica del Corno d’Africa.
La pratica, diffusa tanto fra i musulmani quanto fra cristiani e animisti, resiste in 30 Paesi di cui 27 nel continente africano: è considerata una sorta di viatico di purezza e garanzia di monogamia per la donna, ma – oltre a essere un’insensata violazione dell’integrità fisica – comporta conseguenze sanitarie molto serie, talvolta mortali.
Nella moschea di via Quaranta a Milano, di fronte a donne che la incalzano con mille domande e curiosità, una signora africana vestita d’arancio sceglie parole semplici e dirette per affrontare il problema che ha segnato profondamente la sua vita: la mutilazione genitale femminile.
«Porta solo danni, e non è prescritta dal Corano», scandisce. Lei si chiama Mariame Sakho (nella foto), ha 51 anni ed è una deputata senegalese, impegnata affinché il suo Paese cancelli questa tradizione di sangue che umilia le donne condannandole alla sofferenza. Da tempo è un’attivista della Ong ActionAid per promuovere i diritti femminili.
Figura di spicco della sua comunità di Bakel, nella regione senegalese di Tambacounda, Mariame Sakho conosce alla perfezione il tema della mutilazione genitale femminile: fino a 19 anni fa, le sue stesse mani hanno attuato il «taglio» rituale su migliaia di bambine. «Ho iniziato da ragazza, aiutando mia nonna che svolgeva proprio il mestiere di tagliatrice », ci racconta.
«Le famiglie della nostra etnia, i Peul, ci portavano le neonate, pagandoci 2mila franchi Cefa (circa 3 euro, ndr) per ogni intervento. Da noi si usa rimuovere il clitoride a bambine di uno o due mesi, un’età precoce in cui la ferita si cicatrizza meglio e si pensa che le piccole non soffrano. Si crede che, in questo modo, saranno pure e pronte per un buon matrimonio».
E continua: «Anch’io ho subìto l’escissione: era una cosa normale, a quei tempi (nella foto i coltelli rituali usati dalle donne “tagliatrici”). Ma quando nel 1999 il Senegal ha varato una legge che criminalizza le mutilazioni genitali femminili, io e altre tagliatrici siamo state convocate da una commissione di politici, religiosi e Ong, che ci hanno spiegato che saremmo state arrestate, se avessimo continuato. Così ho smesso, chiedendo perdono ad Allah per tutto il male che avevo arrecato nella mia vita, anche se fino ad allora non me n’ero resa conto: era un’usanza da secoli, non l’avevamo mai messa in discussione. Ma pregare non mi bastava: ho voluto impegnarmi in prima persona per contrastare le mutilazioni genitali, poiché a Bakel, anche dopo la legge, alcuni continuano a praticarle clandestinamente, spesso provocando alle bambine gravi emorragie».
Quanto era rispettata come tagliatrice, tanto oggi Mariame è considerata una voce autorevole per i diritti femminili e per questo, lo scorso luglio, è stata eletta in Parlamento a Dakar. Lavora anche come ostetrica nel centro sanitario di Bakel, dissuadendo le neo-madri dal praticare l’escissione sulle neonate.
«Le convinco a rifiutare le superstizioni: non è vero che la mutilazione genitale rende le donne virtuose, dona onore ai padri, e che la ragazza non circoncisa è impura e non può preparare il cibo per la famiglia. Le madri devono sapere che, al contrario, il taglio porta emorragie, dolori durante il ciclo, fino alla negazione del piacere sessuale. Non è giusto che una donna non conosca mai questa gioia con il proprio marito».
Continua a leggere l’articolo di Emanuela Zuccalà su Avvenire di oggi, martedì 6 febbraio 2018