di Silvia C. Turrin

La tradizione cristiana in Etiopia è molto antica, come ci rivelano non soltanto varie testimonianze archeologiche, ma anche artistiche. È il caso dei manoscritti conservati nel monastero di Gunda Gunde.

L’Etiopia è una terra intrisa di testimonianze cristiane. Basti pensare al complesso di chiese di Lalibela o ancora alle chiese rupestri di Abreha e Atsbeha e di Abuna Yemata Guh.  Meno noto è il monastero di Gunda Gunde (scritto anche Gunde Gundiè o Gunda Gundé), ubicato nella stessa regione etiope dei complessi religiosi prima citati, ovvero il Tigray.

La sua costruzione risalirebbe al periodo che va dal XIV al XV secolo. La storia di questo sito è strettamente collegata a quella del monaco cristiano etiope chiamato Estifanos, il quale, in dissidio con la Chiesa Ortodossa Etiope e con l’allora imperatore Zara Ya’iqop, fondò un nuovo movimento religioso. Si trattava degli Stefaniti.

Estifanos e i monaci che lo seguirono si definivano rigorosi praticanti degli insegnamenti biblici. Il loro ascetismo si rifaceva al Cristianesimo degli albori. Contrari alla venerazione dell’Imperatore etiope, in quanto devoti solo al Dio cristiano, gli Stefaniti subirono persecuzioni. Lo stesso Estifanos fu imprigionato e torturato essendo ritenuto eretico. Il movimento venne ufficialmente dissolto, ma a Gunda Gunde la loro devozione religiosa è ancora palpabile grazie a preziosi e antichi manoscritti.

Un monastero protetto dalle rocce

Tra le prime esposizioni scritte del monastero di Gunda Gunde vi è quella di Antonio Mordini, che nel 1953 compì una spedizione proprio nell’area del complesso religioso. Mordini si basò su quanto descritto da Carlo Conti Rossini, tra i primi studiosi a sottolineare l’importanza del movimento degli Stefaniti per la conoscenza dei culti etiopi (all’epoca definiti abissini).

Fu proprio Conti Rossini a citare il monastero di Gunda Gunde quale ultimo rifugio degli Stefaniti. Un rifugio ben protetto, essendo, come scrisse Mordini, un “eremo nascosto nelle profondità di un’asperrima valle entro cui il rubā Waràt scende da Addigràt verso Rendacoma, ai margini del Pian del Sale”.

Il libro dei Vangeli secondo lo stile Gunda Gunde

Il complesso monastico di Gunda Gunde ha custodito per secoli importanti manoscritti dall’alto valore storico-religioso e artistico. Alcuni di essi sono oggi conservati presso vari istituti etiopi, altri ancora si trovano all’esterno, per esempio nella British Library, nella Biblioteca nazionale di Parigi e all’interno del Walters Art Museum.

Sono numerosi i codici miniati che racchiudono la tradizione cristiana e che sono stati realizzati nello stile denominato Gunda Gundé, ovvero realizzato secondo la tradizione decorativa degli Stefaniti. Basti pensare al libro dei Vangeli in cui vi sono i testi del Nuovo Testamento (di Matteo, Marco, Luca e Giovanni). Tra gli elementi distintivi di questo stile vi è l’uso di colori primari vividi (come il rosso, il giallo e il blu). Altra caratteristica sono le figure evangeliche, ritratte con occhi prominenti, a forma di mandorla. Varie miniature sono decorate da motivi che abbelliscono le figure.

Le ricerche svolte dallo studioso Antonio Mordini non sono state dimenticate grazie al Fondo Mordini con cui si conservano alcuni capolavori dell’arte Gunda Gunde. Di recente, è stato promosso un Catalogo Nazionale dei Manoscritti Etiopici in Italia e interventi di restauro.

La riconsegna di oggetti africani di arte e storia ai legittimi proprietari

Grazie inoltre alla Commissione per gli acquisti in antiquariato dell’Ufficio Centrale per i Beni Librari del Ministero per i Beni Culturali, vennero acquistati manoscritti e vari codici miniati provenienti proprio dal monastero di Gunda Gunde. Opere in seguito donate alla Biblioteca Palatina della Pilotta.

Considerato il fermento di questi ultimi anni attorno alla restituzione di opere artistiche ai loro rispettivi paesi d’origine e di provenienza – si pensi al dibattito che vi è anche in Italia in tal senso e alla riconsegna di vari oggetti d’arte alle ex colonie – ci si chiede se questi manoscritti dell’arte cristiana etiope sparsi tra Italia, Inghilterra, Francia, Stati Uniti, ecc. non debbano ritornare entro i confini della loro terra d’origine.

Seguendo però un altro punto di vista, si potrebbe dire che nei musei o nelle biblioteche pubbliche “occidentali” possono essere maggiormente valorizzati che non in un angusto monastero difficile da raggiungere da turisti, viaggiatori o fedeli cristiani.

Il punto, in ogni caso, rimane la loro corretta conservazione, essendo portatori di una storia ancora da studiare e da comprendere in modo approfondito.