A pochi chilometri dalla capitale senegalese Dakar, troviamo l’isola di Gorée, proclamata Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO nel 1978. Gorée è un luogo simbolo della storia non soltanto africana. Ciò che è accaduto su questa piccola isola ha influenzato e influenza ancora le dinamiche sociali, economiche, politiche e culturali di varie nazioni. Gorée è tristemente nota per essere stata uno dei tanti centri di smistamento e di commercio degli schiavi.
Scoperta nel 1444 da marinai portoghesi, l’isola venne in seguito controllata dagli olandesi, i quali la battezzarono goede reede, che significa “buon ancoraggio”, da cui deriva il suo attuale nome. In seguito, se l’alternarono inglesi e francesi. Gorée era contesa dagli europei per la sua posizione strategica, essendo vicina all’entroterra africano e affacciata all’oceano Atlantico, in direzione delle Americhe. La sua architettura riflette ancora oggi il periodo coloniale. Ne sono una testimonianza alcune case tradizionali presenti sull’isola, la maggior parte datate XVIII e XIX secolo, strutturate su due piani: il primo fungeva da residenza per i mercanti, mentre il pianterreno era adibito a magazzino di merci o di schiavi. Proprio una di queste abitazioni è il luogo simbolo dell’isola, ovvero la Maison des esclaves (la Casa degli schiavi), dove uomini, donne e bambini, divisi nelle rispettive zone, venivano rinchiusi, per poi essere condotti lontani dalla loro terra.
Dalla Maison des esclaves sono passati milioni di africani, allontanati per sempre dalla loro Madre Terra. È qui, in questo sito carico di dolore, che venivano calpestati i diritti umani di migliaia e migliaia di persone; diritti calpestati dall’avidità, dall’ignoranza e dalla crudeltà di altri esseri umani. Passando per la “porta del non ritorno”, la loro libertà veniva totalmente negata, annullata. La tratta degli schiavi fu un’esperienza senza precedenti nella storia dei popoli, che ha avuto profonde ripercussioni nel continente africano e che ha condizionato le vicende di tante nazioni, in primis quelle degli Stati Uniti.
Per mantenere la memoria di quel tragico periodo, la Maison des esclaves è stata trasformata in museo, che ripercorre le sofferenze patite da milioni di africani. Al piano terra della Maison des esclaves si vedono le celle dove venivano ammassate le persone, bambini, giovani donne, uomini… Quelle riservate agli uomini erano “larghe” 2,60 metri per 2,60 metri e in questo angusto spazio venivano stipati dai 15 ai 20 individui. Gli schiavi erano costretti a rimanere seduti contro il muro, con le braccia e il collo incatenati. Prima di essere smistati come animali da soma, come oggetti e non persone, potevano attendere persino tre lunghi mesi.
I racconti di Boubacar Joseph Ndiaye, scrittore e conservatore di questa casa-museo, hanno contribuito a far conoscere al mondo intero la storia della Maison des Esclaves e il dramma della tratta. Boubacar ha lasciato questo mondo nel 2009, ma la sua insegnamento continua, tanto che ogni anno migliaia di persone visitano Gorée.
A sud dell’isola, osserviamo un’altra testimonianza della tratta, ovvero un forte costruito dagli olandesi sulla collina chiamata Le Castel. Nelle vicinanze si può scorgere il “Memoriale di Gorée”, realizzato dall’architetto italiano Ottavio Di Blasi.
La struttura, che assomiglia a un grande villaggio, è divisa in due parti, che simboleggiano, l’una, l’Africa della diaspora, mentre l’altra, rappresenta gli africani non deportati dalla loro Madre Terra.
Al centro della struttura vi è una sorta di “frattura”, ed è qui che sorge il Memoriale propriamente detto formato da due grandi vele.
Questo Memoriale è un luogo che non soltanto invita a ricordare e a riflettere sulla disumana tratta degli schiavi: qui ha infatti sede il Centro Internazionale delle memorie, uno spazio culturale proiettato verso il futuro, in cui i diritti umani e il dialogo tra i popoli rappresentano le colonne portanti.
Il regista Malick Kane ha realizzato un docu-film dedicato interamente al Memoriale di Gorée (titolo originale del film Mémorial de Gorée).
Silvia C. Turrin
Foto: wikipedia