Chris Abani, nato nel 1966 ad Afikpo, nello stato nigeriano di Ebonyl, da padre di etnia Igbo e madre inglese, ha pubblicato a soli sedici anni il suo primo romanzo, Master of the board. A causa dei temi politici trattati (sebbene non ci fosse adesione con la realtà nigeriana) fu perseguitato politicamente e incarcerato.
Oltre che di Abigail, una storia vera è autore del romanzo GraceLand, tradotto in italiano da Terre di Mezzo Editore nel 2006 e de L’ambigua follia di Mr Black, pubblicato da Fanucci Editore nel 2007.
Dopo essere immigrato a Londra, oggi insegna all’Università di California. Ha vinto numerosi premi letterari, tra cui l’Hemingway Foundation Pen Award, il Freedom-to-write Award, il Prince Claus e il California Book Awards.
La sua è una scrittura funambolesca e poetica, tra immagini irreali e denuncie sociali narra storie della nostra comune umanità.
Vi proponiamo qualche pagina del romanzo Abigail, una storia vera, Fanucci Editore, 2008, pp.47-50
Era in autobus. Stava tornando a casa prima del solito, da scuola. Peter, suo cugino, era rientrato da Londra, e suo padre l’aveva mandata a chiamare. Sapeva già perché. Poi era stata distratta da qualcosa che giaceva a terra, sullo spartitraffico in mezzo alla strada.
Le sembrò il corpo di un neonato, che forse la madre adolescente, incapace di affrontare la situazione, aveva buttato fuori dal finestrino di una macchina che passava accelerando. Non era un pensiero assurdo, quello, in un paese in cui le strade delle città e delle metropoli erano cosparse di morti come di rifiuti.
Mentre si avvicinavano, però, aveva visto che era solo lo scomposto mucchio di gomma di un pneumatico scoppiato. Pur sapendo che non era il cadavere di un bambino, in qualche modo il pensiero della morte era rimasto con lei.
Avrebbe dovuto essere un presagio, soprattutto quel giorno, in cui sapeva che suo padre stava discutendo con Peter sull’eventualità di lasciarla andare a Londra con lui.
Pensare a quella città e al cugino Peter le faceva ricordare le buffe storie che suo padre raccontava del periodo che aveva trascorso lì. Succedeva di rado, perché, inevitabilmente, farlo significava parlare di Abigail.
C’era stato con lei, nel 1950. Ogni tanto, però, l’aveva resa partecipe di un episodio: per esempio di quella volta che era andato a vedere un appartamento da affittare. In pratica una stanza sola e, per cucinare e riscaldarsi, una stufetta a petrolio.
I proprietari bianchi restii ad affittare ai neri mettevano fuori un cartello con su scritto: ‘Niente neri. Niente irlandesi. Niente cani’. Perciò, al telefono era stato attento, parlando con un accento il più modulato possibile, e riuscendo in qualche modo a risultare convincente. Contava sul fatto che la proprietaria avrebbe avuto più difficoltà a mandarli via, se lui e Abigail si fossero fatti trovare pronti sull’uscio.
Erano arrivati alle quattro del pomeriggio, puntualissimi, come richiesto. La mano nella mano, madide per l’apprensione, avevano aspettato che la padrona venisse ad aprire. Era inverno e alle tre, per illuminare il buio fitto calato all’improvviso, erano già accesi i lampioni.
Suo padre si era schiarito la gola e, mentre ascoltavano l’avvicinarsi dei passi, aveva sorriso ad Abigail, rassicurante. La porta si era spalancata, rivelando una donna bianca di età indefinibile: avrebbe potuto avere da cinquanta a settant’anni. Appena viste le loro facce, nere e sorridenti sotto il suo portichetto, aveva emesso un piccolo grido ed era svenuta.
Terrorizzati al pensiero che fosse morta d’infarto e che la responsabilità potesse essere imputata a loro, si erano allontanati a passo sostenuto lungo la via, per un miglio o forse più, senza mai fermarsi.
Certo, rideva mentre raccontava, e Abigail con lui, immaginandosi la madre [di cui portava il nome] e il padre che correvano lungo quella strada di Londra, nell’oscurità invernale. Ma sempre, in fondo agli occhi di lui, scorgeva un velo di tristezza, e non sapeva se era per Abigail o per l’umiliazione di quel giorno, o entrambe le cose.
Dopo il tragitto in autobus, una volta arrivata a casa, lo aveva trovato seduto nella veranda, mentre controllava Anwara, il falegname del posto, che costruiva una casetta. Era successo quattro anni prima: lei aveva dieci anni appena compiuti.
“A cosa serve papà?” aveva chiesto, mentre gli portava una tazza di acqua fredda.
Lui l’aveva bevuta tutta d’un fiato, con gratitudine. Prima di rispondere, buttando le ultima gocce a terra con un unico fluido movimento del braccio, le aveva chiesto di portarne un’altra per Anwara. Lei lo aveva fatto e, mentre l’uomo beveva, era ritornata da suo padre.
“E allora, cosa sta costruendo? Una casa per le bambole?”
“Per le bambole, eh?” aveva replicato lui. “No, tesoro, è una cuccia per il cane”.
“Una cuccia?” aveva chiesto, sorpresa. Non aveva mai sentito parlare delle cucce, e aveva sperato davvero che fosse per le sue bambole. E comunque cosa se ne sarebbe fatto Pedro, il loro cane con tre zampe, di quella casetta?
Da quando se lo ricordava, aveva sempre dormito in veranda, felice, sotto la sedia di suo padre. Credendo che, invece di essere risentita, lei non capisse, lui aveva spiegato che a Londra i cani hanno tutti una cuccia e che, ora che Pedro diventava vecchio, gli era sembrata una buona idea costruirgli un riparo dalle intemperie.
Lei non aveva risposto, e lui aveva proseguito raccontandole di come le donne di quella città, se il marito si comportava male, lo mandava nella cuccia del cane; le aveva assicurato che, da padrona di casa, avrebbe potuto fare la stessa cosa con lui.
Lei sapeva che stava scherzando, ma in un certo qual modo se n’era sentita confortata. Ma Pedro non aveva mai avuto simpatia per il suo nuovo domicilio, preferendo quello di sempre, sulla veranda, sotto la sedia; così la cuccia era stata occupata da una gallina chiassosa insieme alla sua famigliola”.
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A cura di Ludovica Piombino, Biblioteca Africana Borghero