Igiaba Scego (Roma, 1974), scrittrice italiana di origine somala è – tra le molte cose – autrice di La mia casa è dove sono (Loescher, 2010), da cui è stato tratto lo spettacolo omonimo della Compagnia del Suq.
Uno spettacolo davvero intenso, alla fine del quale viene chiesto, a noi spettatori, dove sia la nostra casa. Ricordo che d’impulso la mia risposta era stata: “Mi sento a casa ogni volte che instauro relazioni, contatti”.
Uno spettacolo che smuove la parte profonda di ognuno di noi, attraverso ricordi, sensazioni, tracce.
Tra i libri di Igiaba Scego: Pecore nere, scritto a più mani (Laterza, 2005), Oltre Babilonia (Donzelli, 2008) , Roma negata (con Rino Bianchi, Ediesse, 2014), Adua (Giunti, 2016), La linea del colore (Bompiani, 2020), vincitore del Premio Napoli e il recente : Africana. Raccontare il continente al di là degli stereotipi (Feltrinelli, 2021).
È un’autrice prolifica, ama le collaborazioni e scrive per molte riviste che si occupano di migrazione, di culture e letterature africane come, Latinoamerica, Carta, El Ghibli, Migra e con alcuni quotidiani nazionali. Le sue opere sono piene di riferimenti autobiografici: la sua parte somala e quella italiana, costantemente in bilico ed equilibrio.
A proposito, a commento di Ethiopian volunteers register here!, un suo racconto breve comparso in Cronache dalla polvere di Zoya Barontini (Bompiani, 2019) scrive:
“Nel 1937 mio padre aveva tredici anni, mia madre non era ancora nata. Mio padre è originario di Brava, una città del Sud della Somalia, e i suoi primi anni di vita fino quasi alla piena adolescenza li ha vissuti sotto l’egida del controllo italiano. Mio padre di fatto è stato un suddito di quello che Mussolini chiamava impero.
Suddito mi suona sempre come una parola sporca, perché nascondeva ammantandola di retorica, un’invasione che i popoli del Corno D’Africa hanno subito con il beneplacito dell’intera Europa.
La generazione di mio padre di fatto è stata schiava nel proprio paese. Di quel periodo mio padre ha molti ricordi e per anni mi ha raccontato com’è stato vivere sotto il colonialismo italiano e quanto poi questo ha inciso sia sulla sua vita personale sia su quella del paese. In questi racconti è sempre presente mio nonno, suo padre, un uomo che durante l’occupazione italiana come tanti si arrangiava a lavorare per gli occupanti.
Siccome sapeva bene l’italiano nonno veniva usato spesso come interprete e sovente gli capitò di tradurre Rodolfo Graziani, il macellaio, il pluriomicida Graziani. Questo mi ha fatto capire quanto il colonialismo storico è stato pieno di sfumature, quanto la popolazione autoctona, pur di andare avanti ha anche accettato questa subalternità imposta e da cui era difficile scappare. È da qui che è nato il mio interesse per questo periodo storico.
Quanti hanno resistito? Quanti hanno subito? Quanti collaborato? Per me non era facile digerire un nonno interprete di Graziani, ma con il tempo ho capito che la storia ha mille sfumature e quello stesso nonno, non a caso forse, è stato tra i primi a sognare (per poi crearla insieme ad altri)una Somalia indipendente.
Ho capito anche quanto il colonialismo ha distrutto i sogni di tante generazioni, tra cui quella di mio padre. (…) Quindi il colonialismo per me è stato qualcosa di presente in casa. E anche mia madre mi ha sempre raccontato che dei suoi zii erano morti come Dubat, truppe coloniali, a fare da carne da macello per la sporca guerra degli italiani in Libia e in Etiopia.
Una volta ho chiesto a tutta la famiglia se c’era qualcosa che l’Italia aveva lasciato di buono alla Somalia. La domanda era di quelle dense, quasi provocatorie. Ha risposto mio cugino per tutti e ha detto ridacchiando : la pasta al forno. Poi ha aggiunto: ma questo non ci ripagherà mai dei danni strutturali che ci hanno fatto gli italiani.
Non c’è stata una guerra civile per caso… Ecco perché gran parte della mia opera narrativa e di ricerca l’ho dedicata a questo periodo storico, ho due paesi la Somalia dei miei genitori e l’Italia dove sono nata, e vorrei che prima o poi riuscissimo a guardare dritto negli occhi questo dolore immenso che è stato il colonialismo, guardarlo intensamente e poi decidere tutti insieme di affrontarlo, senza più nascondere la testa sotto la sabbia come uno struzzo. I have a dream…” (pp. 254-265).
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A cura di Ludovica Piombino, Biblioteca Africana Borghero
Foto: Wikipedia, Africa Rivista