Benjamin Lay, deriso perché affetto da nanismo, guidò gli abolizionisti nel Settecento. Ce ne parla il suo biografo nell’intervista di Viviana Mazza.
Nel saggio “Il piantagrane”, Marcus Rediker, professore di Storia dell’Atlantico all’Università di Pittsburgh, racconta le origini della lotta per l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti attraverso la figura poco nota di Benjamin Lay. Nano inglese di fede quacchera, emigrò nel Nuovo Mondo e visse in una grotta nei pressi di Filadelfia. Deriso per il suo aspetto fisico, portò avanti una battaglia a tutto campo ricorrendo ad argomentazioni etiche e politiche ma anche a pungenti performance per ridicolizzare gli schiavisti.
“Il Vermont, dice Marcus Rediker, intervistato da Viviana Mazza, rivendica l’onore d’essere stato il primo Stato ad abolire la schiavitù, nel luglio 1777. Ma lì quasi non c’erano schiavisti né schiavi, fu facile, non importava a nessuno. Nel marzo 1780 seguì la Pennsylvania, e qui la ragione è chiara: l’influenza di abolizionisti come Benjamin Lay e dei quaccheri che nel 1775 avevano fondato la prima organizzazione abolizionista, la Società per il soccorso ai negri liberi illegalmente detenuti in catene, e che nel 1776 furono il primo gruppo religioso a porre fine alla schiavitù al proprio interno”.
D.: Lay fu il primo a mettere in discussione la moralità della schiavitù?
M.R.: “Nel 1738 pubblicò il libro Tutti gli schiavisti che tengono gli innocenti in catene, apostati. Assunse una posizione militante due generazioni prima che si sviluppasse un movimento contro la schiavitù. Non solo: Lay viveva al di fuori dell’economia capitalista; era vegetariano, pioniere dei diritti degli animali. E fu il primo a rifiutare di consumare ogni merce prodotta con il lavoro degli schiavi: in pratica, inventò il boicottaggio. Tutto questo, quasi 300 anni fa. Non fu il primo a chiedere l’immediata e totale abolizione della schiavitù ma fu tra i primi, e tra i pensatori più rivoluzionari. Il mondo lo sta finalmente raggiungendo: può essere un modello per i radicali di oggi”.
D.: Benjamin Franklin, che pubblicò il libro di Lay, condivideva le sue idee, pur essendo proprietario di schiavi?
M.R.: “Franklin e sua moglie Deborah provavano grande ammirazione per Lay, anche se per valori e visione del mondo erano più conservatori. Franklin pubblicò quel libro pur sapendo che i quaccheri ricchi della Pennsylvania avrebbero protestato per il modo in cui venivano ritratti (evitò per discrezione e convenienza di apporvi il suo nome in quanto stampatore). I Franklin sembravano consapevoli che Lay fosse all’avanguardia per quei tempi e che sarebbe diventato una figura storica. Non è chiaro, invece, che cosa Lay pensasse di Franklin: deve aver provato disprezzo per il fatto che possedeva degli schiavi, se lo sapeva. Anni dopo, quando Franklin diventò il capo della Società per l’abolizione della schiavitù in Pennsylvania, si vantò di aver pubblicato il libro, anche se allora era lui stesso uno schiavista. Lay era il tipo d’uomo che Franklin avrebbe potuto essere se avesse avuto il coraggio di affermare le sue idee”.
D.: Come valuta l’operato di Abraham Lincoln?
M.R.: “L’idea comune è riassunta in questa frase: “Il presidente Lincoln liberò gli schiavi”. Anche se Lincoln seppe costruire la coalizione al Congresso che portò al proclama di emancipazione, da lui firmato il 1° gennaio 1863, questa visione è semplicistica e fuorviante. Non è mai una buona idea riassumere fatti complessi incarnandoli in un unico individuo virtuoso. Non è così che funziona la storia”.
D.: Il Sud voleva separarsi dal Nord per tenere gli schiavi ma il Nord non avviò la Guerra civile per liberarli, vero?
M.R.: “Lincoln in particolare e il Nord in generale entrarono in guerra non per porre fine alla schiavitù ma per preservare l’unità nazionale. Nel 1862 Lincoln scrisse a Horace Greeley (editore del “New-York Tribune” e tra i fondatori del Partito repubblicano, ndr): “Se potessi salvare l’Unione senza liberare nessuno schiavo, lo farei; se potessi salvarla liberando tutti gli schiavi, lo farei; potessi salvarla liberandone solo alcuni, farei anche questo. Ciò che faccio riguardo alla schiavitù e alla razza di colore, lo faccio perché credo che aiuti a salvare l’Unione; e ciò che evito di fare lo evito perché non credo che possa aiutare a salvare l’Unione”“.
D.: Quand’è che la schiavitù divenne centrale per la causa nordista?
M.R.: “Quando si studia la storia della Guerra civile “dal basso”, come faccio io, è chiaro che altri attori e forze sociali contribuirono all’abolizione della schiavitù. Gli schiavi ebbero un ruolo importante, organizzando quello che il grande storico afroamericano W.E.B. DuBois ha chiamato uno “sciopero generale” nei campi allo scoppio della guerra civile. In decine di migliaia smisero di produrre cotone e altre colture commerciali, indebolendo lo sforzo bellico dei confederati. Abolizionisti del Nord più radicali di Lincoln entrarono in gioco argomentando che l’emancipazione era necessaria per ragioni morali e, sempre più, militari. Quando l’esercito dell’Unione conseguì risultati scarsi nelle prime fasi della guerra e le rivolte contro la leva esplosero in città come New York, i “repubblicani radicali” capirono che l’emancipazione avrebbe portato migliaia di neri liberati ad abbandonare le piantagioni per arruolarsi con l’Unione e rovesciare il sistema schiavista. Fu una svolta per la guerra”.
D.: Lei è anche un attivista per la giustizia sociale. Che cosa resta della schiavitù in America?
M.R.: “Mi sono battuto contro i pregiudizi razziali in carcere e nel braccio della morte, dove le persone di origini africane sono molto più numerose di altri gruppi sociali. Il retaggio schiavista persiste nella profonda povertà, nelle disuguaglianze strutturali, nelle morti premature, piaghe che colpiscono di più gli afroamericani. Le navi negriere salpano ai confini della consapevolezza moderna, perseguitandoci come vascelli fantasma”.
D.: Oggi l’ipotesi di un risarcimento agli eredi degli schiavi viene discussa anche tra i candidati democratici alla Casa Bianca. Che ne pensa?
M.R.: “Nel libro La nave negriera concludo che un risarcimento è necessario per superare il peso terribile della storia, che si tratti di pagamenti in denaro, investimenti in infrastrutture, opportunità educative. C’è sempre maggiore consapevolezza che la schiavitù non sia stata solo un periodo spiacevole o una violenta catastrofe. È stata un crimine contro l’umanità che ha influenzato la società intera per generazioni. Fino a oggi”.
Viviana Mazza, La Lettura-Corriere della Sera, 11 agosto 2019
Marcus Rediker, Il Piantagrane. Storia di Benjamin Lay, traduzione di Elena Cantoni, Eleuthera, Milano, novembre 2019, pagg. 264, € 18