Nel centro-nord del Mali da anni regna l’instabilità. Nel 2012 il popolo tuareg lanciava un’insurrezione contro il Governo del Mali, per rivendicare maggiore autonomia politica. A loro si sono aggiunti gruppi di jihadisti islamici. Il clima di conflitto e instabilità ha sconvolto gli equilibri tra le varie popolazioni che da secoli, faticosamente, devono convivere in un habitat impervio e inospitale.
Da allora le cose sono peggiorate: i tuareg hanno trovato un accordo con il governo, ma la ribellione è ora portata avanti da gruppi di terroristi islamici sempre più agguerriti. Alcuni di loro sono affiliati ai due grandi movimenti, Al Qaeda nel Magheb Islamico (AQMI) e lo Stato Islamico (ISIS); altri invece corrono da soli, e perseguono fini non sempre chiari.
Oltre ai tuareg, il popolo del deserto, che si muove in un enorme territorio che oltre al Mali, tocca regioni di Algeria e Niger, ma anche di Libia, Burkina Faso e Ciad, ci sono altri popoli che hanno visto sconvolta la loro esistenza quotidiana. Tra questi in particolare, i peul-fulani e i dogon.
I primi sono pastori nomadi che da secoli si muovono lungo il Sahel con le loro mandrie, incuranti dei confini geografici.
I secondi sono un popolo di agricoltori, discendenti dei primi abitanti delle savane del Mali, spinti dagli invasori sonhgay e bambara a rifugiarsi nelle falesie del nord-est.
Come scrive la giornalista Anna Pozzi, la situazione di conflittualità e instabilità iniziata nel 2012 ha provocato “uno scontro tra due mondi, due culture, due religioni che ha radici ataviche, ma che in questi tempi di sconvolgimenti per tutto il Sahel ha conosciuto picchi di violenza mai conosciuti prima”.
Mentre i peul, sono un grande e composito gruppo etnico, la cui entità numerica è stimata in 25 milioni di persone, i dogon sono un piccolo gruppo di 240.000 persone. Il grande etnologo francese Marcel Griaule li ha studiati a lungo e li ha fatti conoscere al mondo intero, per mezzo della sua opera “Dio d’acqua”, scritta tra le due guerre.
Un etnologo italiano che li conosce bene e li apprezza è Marco Aime, professore dell’Università di Genova, che scrive: “La falesia di Bandiagara, da sempre il rifugio dei dogon, è uno dei maggiori siti di importanza archeologica, etnologica e geologica del mondo. È un luogo in cui si è mantenuta viva una cultura molto originale e complessa. Le danze dogon costituiscono il rito forse più significativo e antico. Ma la loro cultura si esprime anche attraverso altre forme d’arte: in particolare, questo popolo è diventato famoso per l’attività scultorea, totalmente intrisa di religiosità. Le statue lignee rappresentano spesso la dea madre, evocano la fertilità e la sacralità della natura”.
I dogon, ritenuti uno dei popoli più pacifici dell’Africa, oggi hanno cambiato atteggiamento. Sentendosi minacciati dai peul, tra cui sono reclutati molti dei jihadisti che imperversano nel Sahel, molti giovani dogon hanno costituito delle milizie di autodifesa.
Il governo del Mali lascia fare: nella lotta contro i jihadisti e i ribelli del nord, nello sforzo di riportare la sicurezza e il controllo dello Stato in queste regioni, ha coinvolto la popolazione autoctona.
E allora affiorano vecchi dissapori, contrasti che durano da secoli: il conflitto tra pastori e agricoltori per il controllo delle terre più fertili e delle sorgenti di acqua. “I peul non si sono mai fatti troppi scrupoli a invadere e devastare i campi degli agricoltori dogon per far pascolare le loro imponenti mandrie”, scrive Anna Pozzi.
I vecchi dogon hanno sempre subìto, hanno preferito non cercare lo scontro aperto, ma si sono ritirati in zone sempre più impervie, trovando un equilibrio vitale con l’ambiente.
Ma i giovani dogon, forti delle armi ricevute dal governo, invece di combattere i terroristi, hanno cominciato a opporre una strenua resistenza ai soprusi dei peul. E ne è nata una faida, che ha già fatto centinaia di morti.
I dogon – spiega Mario Giro, un grande conoscitore dell’Africa – hanno superato il complesso di inferiorità nei confronti dei peul. “Creare proprie milizie significa aumentare l’assertività in termini di identità. In questo caso quelli che hanno cambiato maggiormente il modo di agire sono proprio loro. Con la creazione di milizie di autodifesa hanno introdotto forme di privatizzazione della guerra in una situazione di caos”.
Ma tra violenze, gente in fuga e sfollata, ritorsioni e abusi (da entrambe le parti), conclude Anna Pozzi, i dogon oggi rischiano di perdere, prima ancora che la guerra, la loro anima.
p. Marco Prada