Il nord-est della Repubblica democratica del Congo è teatro di una profonda crisi. Nella regione del Nord Kivu la popolazione si trova infatti nel mezzo di un’epidemia di Ebola che continua a estendersi a macchia d’olio e di un vortice di violenze causate da decine di gruppi armati in lotta per il controllo del territorio e dei minerali preziosi che nasconde il sottosuolo.

Le vittime della malattia sono già salite a 85 durante la prima settimana di settembre, mentre sono oltre un centinaio i possibili casi di contagio. È una lotta contro il tempo aggravata da uno dei più complicati conflitti civili attualmente in corso sul continente nero.

“L’obiettivo è di vaccinare almeno 400 persone al giorno”, riferisce Gwenola Seroux, responsabile delle urgenze presso l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere (Msf). “È inoltre molto importante sensibilizzare la popolazione per prevenire una maggiore diffusione del virus”.

Intanto, però, la città di Butembo, situata nel nord-est del territorio, vicino al confine con l’Uganda occidentale, ha registrato il suo primo caso confermato. Un segnale che preoccupa le agenzie umanitarie e la popolazione. “Butembo è un centro urbano di circa un milione di persone”, ha sottolineato il ministero della Salute congolese. “È quindi necessario fare di tutto affinché il virus non si diffonda ulteriormente”.

La decima epidemia congolese di Ebola dal 1976, anno in cui è stato scoperto il virus vicino all’omonimo fiume, è esplosa lo scorso luglio nella località di Mangina, vicino alla cittadina di Beni, quest’ultima situata a circa 50 chilometri da Butembo. Le autorità congolesi, insieme alle Nazioni Unite e alle organizzazioni umanitarie in loco, lavorano notte e giorno per arginare le possibilità di contagio. Da settimane, però, gli scontri tra diversi gruppi armati nell’area ostacolano le loro operazioni.

“Chiediamo alla popolazione di essere prudenti”, ha detto Sylvain Kanyamanda, sindaco di Butembo. “Dobbiamo seguire le misure raccomandate dagli operatori sanitari sulle regole igieniche”. Sebbene ci siano stati alcuni progressi nell’evitare un ampio contagio, alcuni crocevia popolati e importanti per il Paese come la città di Kisangani sono ad alto rischio. Per tale ragione, sono rimasti attivi i sistemi di allerta creati per l’epidemia precedente, terminata lo scorso giugno a Mbandaka, nella provincia occidentale dell’Equatore.

I rapporti di chi opera nella provincia di Beni stanno però denunciando da giorni “stupri, uccisioni e attacchi contro numerosi villaggi”. È comunque difficile verificare tali informazioni a causa dell’insicurezza che dilaga in gran parte della regione. “I combattimenti tra circa 100 gruppi ribelli si sono intensificati, ha affermato recentemente uno studio dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur). “Interi villaggi sono stati dati alle fiamme e gli abitanti brutalizzati a colpi di machete. Inoltre – continua lo studio dell’agenzia Onu – la violenza sessuale sulle donne è all’ordine del giorno, in particolare nei territori al confine con l’Uganda”.

La popolazione civile si sente abbandonata. “Abbiamo avvisato le autorità rispetto agli attacchi lanciati dai guerriglieri delle Adf nella regione di Beni”, ha detto alla stampa Omar Kavota, a capo del Centro per la pace, la democrazia e gli studi dei diritti umani, un’organizzazione non governativa locale . “L’esercito, però, non vuole intervenire per ripulire l’area e smantellare le basi dei ribelli”.

Senza pace, il numero di vittime causate da uno dei virus più misteriosi al mondo sembra destinato ad aumentare velocemente.

Matteo Fraschini Koffi, giornalista freelance, da Lomé

Foto dell’Agenzia IrinNews