Padre Miguel Larburu, spagnolo dei Paesi Baschi, dove nasce nel 1944, entra nella Società dei Missionari d’Africa – più noti come Padri Bianchi – a diciotto anni come seminarista. Dopo gli studi, compiuti in Spagna, Francia, Canada, Italia, e dopo l’ordinazione sacerdotale realizza la sua vocazione a stretto contatto con la popolazione algerina, dunque tra i musulmani, con i quali dialoga per quarant’anni soprattutto nel Sahara. Qui testimonia col proprio lavoro quotidiano un Vangelo concreto, camminando insieme con i “differenti” per confessione religiosa, ma “fratelli tutti” in umanità.

Nominato Provinciale per Algeria e Tunisia nel periodo tragico della guerra civile, a fine Novecento, testimonia col suo impegno di massima responsabilità la vicinanza alla popolazione algerina, ferita dal fanatismo terrorista, aiutando con lo stesso spirito di fraternità sia le comunità cristiane rimaste nel Paese insanguinato, sia la gente locale, vittima dei giochi di potere. Ora, tornato in Spagna, Padre Miguel continua la sua opera missionaria, sempre intesa come vicinanza e mai come proselitismo, lavorando a contatto con gli immigrati.

Il libro Mare e sabbia, uscito nel 2018 in spagnolo, pubblicato da poco in edizione italiana, è una testimonianza della fedeltà di Padre Miguel alla sua vocazione come “operaio” di un Progetto Grande e con un Principio Invisibile: per lui il lavoro, vissuto come espressione di spiritualità, dunque con profonda passione, ci rende davvero “inviati” da Dio, cioè missionari. Un messaggio che vale per chiunque – credente o non credente – viva con impegno la sua vita, ascoltando la scintilla interiore che ci fa continuamente creatori di umanità.


Domanda.

Dalla tua biografia emerge un filo rosso che apre a una riflessione sull’attualità di un’esperienza missionaria come quella che hai svolto. Tu ha vissuto decenni tra i musulmani, senza potere né volere fare proselitismo, ma solo testimoniando la tua vicinanza. Sei vissuto tra i non cristiani. L’Occidente oggi è un mondo post-cristiano: qual è il ruolo di un cristiano credente in una società di non credenti, o meglio di indifferenti?  È stato più facile vivere con i musulmani o vivere adesso in un’Europa secolarizzata?

Miguel Larburu

È una domanda complessa. La risposta però è molto semplice: sono stato felice nel Sahara, e oggi sono sempre felice.

È stato più facile vivere in un mondo musulmano, animato da una fede profonda, ma non c’è nostalgia. Oggi non ho paura che la gente non creda e sia come perduta in un mondo edonista, in una sovrabbondanza materiale: ne sono esempio il proliferare vertiginoso dei viaggi ovunque nel mondo. Non ho paura di questo edonismo, cerco di capirlo, mi faccio domande, continuo a praticare la vicinanza con chi non sa cosa sia la sovrabbondanza perché manca del necessario. C’è una continuità nel mio modo di vivere la relazione con gli altri, che siano credenti con una fede non cristiana o che abbiano smarrito una comune identità spirituale.

Domanda.

Il titolo del libro è Mare e sabbia. Due esperienze così distanti e diverse si sono intrecciate.  Nel finale del libro dici che la tua vita è stata caratterizzata da una “unità costante” anche se “alcuni percorsi possono sembrare contraddittori”. Quale è stata la linea di tangenza che ti ha permesso di vivere nella sabbia senza dimenticare il mare, cioè di coniugare anche gli opposti? Tu spesso dici che è stato il sentire e praticare il lavoro come una forma di spiritualità. È stato questo un fondamentale elemento di continuità nella tua vita?

Miguel Larburu

Sì, certo, il lavoro lo è stato. Ho sempre cercato di seguire la spiritualità di Charles de Foucault, cui si è ispirato René Voillant: di lui ho letto e riletto il libro Nel cuore delle masse. La preghiera è condivisione fraterna con l’umanità, dunque è anche il lavoro con le persone, e il lavoro rimanda alla spiritualità. Il lavoro è un potenziamento della nostra umanità ed è in continuità con la creazione divina: lavorando, portiamo avanti questo compito che Dio ci ha affidato dal settimo giorno. Questa è la grande bellezza del lavoro e ho cercato di trasmetterla ai miei studenti lavorando con loro. Il fatto che io ero un prete era per loro un’occasione di crescita: hanno imparato che la spiritualità (di qualunque confessione religiosa) può entrare perfettamente nella razionalità e nella pratica di un lavoro come quello che insegnavo loro nelle scuole professionali.

Domanda

 In Mare e sabbia dici che Hetty Hillesum è stata per te un’àncora di salvezza. Ti propongo questa sua frase, citata anche nel libro: “Tutte le volte che mi sono sentita pronta ad accettarle, le prove si sono trasformate in bellezza”. La domanda è: la tua vita è stata messa alla prova tante volte. Come hai trovato la forza per trasformare le prove in bellezza?

Miguel Larburu

La forza è tratta da una formazione ignaziana spirituale: fondamentale è l’esame di coscienza ogni giorno. Questo spinge all’autoanalisi, che incomincia sempre con una preghiera. E già la preghiera è in sé bellezza.

Le prove ci sono state, sentivo la morte, ma assumevo la responsabilità che mi avevano dato e che era bellezza perché sentivo la fiducia dei compagni. E anche loro avevano assunto responsabilità e coraggio e io sentivo, oltre alla paura, anche il loro coraggio. E dovevo sostenerlo. È bellezza vivere insieme esperienze che ti mettono davanti all’essenziale, cioè alle domande sui nostri confini e sul superamento dei nostri confini. Come diceva Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. Io ci credo davvero!

Domanda

Koldo Aldai, l’autore della tua biografia, scrive: “La chiamata all’impegno è germogliata in Miguel fin dall’infanzia. Miguel avrebbe voluto prendere la via del mare”. Vuoi dire  qualcosa sulla “via del mare” che volevi prendere? Così spieghi anche il titolo del libro…

Miguel Larburu

Tutto è cominciato molto precocemente: avevo quattro anni e mio papà, che era ufficiale della Marina spagnola, ha avuto un incarico lavorativo a Las Palmas, nelle isole Canarie. Ci siamo rimasti solo un anno, perché quell’ambiente, allora caratterizzato da traffici non sempre legali, a mio padre non piaceva proprio. A Las Palmas però è nata la mia vocazione per il mare e per l’Africa: le Canarie sono territorio geograficamente vicinissime all’Africa. Lì ho imparato anche lo spagnolo, che non conoscevo perché in casa si parlava solo il basco. E lì ho fatto amicizia con un africano, un allevatore di mucche: era la prima volta che vedevo un uomo nero! Ho bellissimi ricordi di quell’anno nel mare vicino all’Africa. Il mare era il mio sogno: da bambino per la festa dei Re Magi volevo sempre una nave. Sembrava questo il mio destino.

Diventato adolescente, volevo concretizzare la mia vocazione religiosa, che ho sentito molto presto, con un apostolato sul mare, facendo il cappellano sulle navi che andavano dal Paese Basco a Terranova, in Canada. Ma… è andata diversamente! E la via del mare, che aveva un senso solo geografico e legato alla pesca, è diventata la via della “Galilea dei gentili ”. Come la Galilea è un luogo di mescolanza di nazioni e di genti, così è diventato il mio mare: volevo stare in mezzo a tanta gente differente dalla mia cultura occidentale.

Domanda

 E arriviamo a quello che tu nel libro chiami un punto di inflessione della tua vita: “Esci dalla tua terra…”, il comando che Dio rivolge ad Abramo in Genesi 12. Ci parli di questo momento di svolta radicale? Fu una folgorazione?

Miguel Larburu

Non fu una folgorazione, ma un punto di arrivo e di partenza verso una vocazione più chiara della originaria chiamata sul mare: ho capito per la prima volta che mi aspettava una missione nel deserto.

Arrivo al flash dalla mia vocazione personale. Ero nel seminario di San Sebastián e regolarmente venivano a visitarci dei missionari. Venne un giorno un Padre Bianco, Padre Daguerre, molto simpatico, lui stesso tanti anni missionario in Rwanda. Alla fine della serie di diapositive ci mostrò, tra altre che non mi suggerivano nulla, la diapositiva della cappella del nuovo Seminario dei Padri Bianchi a Logroño: nella trave rossa che sosteneva il coro della cappella c’erano scritte queste parole color bronzo: “Esci dalla tua terra e vai dove ti indicherò”.

La mia decisione è stata immediata: sei mesi dopo  ero a Logroño nel Seminario dei Padri Bianchi, Missionari d’Africa, per cominciare i corsi di filosofia.

Domanda

Un altro momento di svolta radicale fu al Lago Verde, in Canada, dove sei stato mandato per studiare teologia. Che cosa è successo?

Miguel Larburu

Era un giorno un po’ prima di Pasqua, ero uscito sui laghi ghiacciati vicino a Montreal e lì ho interrogato me stesso. Sono tornato a casa dai Padri Bianchi che mi ospitavano, e loro, guardandomi meravigliati, mi hanno detto: “Miguel, sei ‘trasfigurato’!” Là, in solitudine e nel gelo della neve, avevo preso la mia decisione con piena convinzione: il Sahara era il mio cammino. In Canada ho fatto tre anni di teologia: parlavamo francese e inglese alternativamente per quindici giorni. Alla fine siamo diventati bilingui perfetti. Durante le vacanze estive avevamo la possibilità di lavorare, e io ho deciso di lavorare manualmente: il primo anno in una fattoria in campagna, in una famiglia d’immigrati olandesi, sul lago Ontario. Il secondo anno ho lavorato per una azienda italiana, di Milano, costruendo un grattacielo di quaranta piani: fu un’esperienza fortissima, in un gruppo molto affiatato.

Domanda

 Leggo da Mare e sabbia: “Miguel ha vissuto nel deserto non per conquistare proseliti, ma per conquistare amici, fratelli.” . È la “teologia della vicinanza”. Come l’hai praticata? Quali erano le tue attività?

 

Miguel Larburu

La pratica della teologia della vicinanza consiste nel lavorare con la popolazione e per la popolazione. Come ho già accennato prima, ho lavorato tanti anni come insegnante nelle scuole professionali: insegnavo disegno tecnico, e lo facevo in francese e in inglese. La nomenclatura e le misure sono in inglese ed era fondamentale addestrare gli studenti alla conoscenza di questa lingua.

Insegnavo a disegnare gasdotti e oleodotti: il gas e il petrolio dovevano essere la base perché le nuove generazioni di algerini si rendessero autonomi dal colonialismo economico occidentale. Svolgevo le lezioni anche in laboratorio, per insegnare, ad esempio, le tecniche della saldatura.

A questo lavoro direi istituzionale ho affiancato lavori di progettazione idraulica e anche la costruzione di case, non solo per il nostro clero, ma anche per la popolazione locale. Vivevo la stessa vita della popolazione: sono stato accolto con grande ospitalità e ho cercato di restituire questo dono aiutando tutti. Ho vissuto una straordinaria esperienza di circolarità di amicizia. E l’amicizia è il segno concreto dell’attualità del Vangelo.

 

Domanda

Quanto il paesaggio del deserto ha influito sulla maturazione della tua spiritualità?

Miguel Larburu

Già l’appello di Abramo era una predisposizione al deserto, inteso anche biblicamente come luogo di prova e di incontro col divino. A differenza del deserto mediorientale, però, il deserto del Sahara è speciale: c’è sabbia ed è chiuso tra due catene di montagne, a nord l’Atlante, a sud le montagne dell’Hoggar dei Tuareg. Il deserto era il luogo del silenzio (da ragazzo mi chiamavano “il silenzioso”!) e io amavo il silenzio. Ricordo che dormivo e mangiavo sulle dune con gli amici, ricordo i colori del deserto, il rosso verso il tramonto, lo speciale modo di camminare nel deserto: la morbidezza della sabbia, il passaggio dal freddo al caldo, quasi improvviso, soprattutto al tramonto, quando la duna ha una parete già fredda e una ancora calda. Sensazioni uniche… Ho sentito crescere la bellezza del mondo. Sentivo di essere come il Piccolo Principe di Saint-Exupéry, che quando si sentiva triste, al tramonto, saliva su una duna più alta per poter vedere ancora il sole: e si sentiva ancora felice. Così ero nel deserto: nei momenti difficili cercavo nel mio cuore una duna più alta e riuscivo a vedere il sole, in attesa di vederlo rinascere. E la spiritualità si nutriva di luce.

 

Domanda

E arriviamo agli anni duri della guerra civile, quando eri Provinciale, nell’ultimo decennio del Novecento. I tanti morti assassinati sono definiti “martiri d’amore”. Cosa significa l’espressione “martiri d’amore”?

Miguel Larburu

Semplificando un po’, nella Chiesa ci sono due cammini verso la santità nel martirio: ci sono i martiri di sangue, che sono morti per testimoniare la loro fede (e anche loro sono morti per amore di Gesù!), e i martiri d’amore, che hanno aggiunto alla morte nel sangue la testimonianza della loro fraternità con il prossimo. I 19 morti d’Algeria, ora beatificati, hanno sempre affermato di essere concordi (proprio nel senso etimologico di “avere lo stesso cuore”) col popolo algerino che nella massima parte era estraneo al fanatismo islamista. Cristiani e musulmani erano uniti da una umanità che supera ogni frontiera confessionale: questo è l’amore universale che ci ha testimoniato Gesù, primo martire di sangue e d’amore. E aggiungo, tra i martiri d’amore che hanno inciso da vicino nella mia vita, anche Charles de Foucault, che a inizio Novecento ha vissuto un lungo periodo tra i Tuareg, in meditazione tra le montagne del Sud algerino. Per la causa della sua beatificazione a Roma ho avuto il compito di raccogliere gli oggetti della sua vita: questa spiritualità di un uomo del deserto, morto martire per amore dei suoi Tuareg, ha lasciato una traccia profonda nel mio cuore.

 

Domanda

E adesso parliamo dell’omelia che tu ha pronunciato per i funerali dei tuoi quattro confratelli uccisi in un agguato terroristico. Una omelia fortissima, dove si sente il ruggito furibondo del leone e si vede insieme la tua mano che si fa portatrice di pace. Hai saputo accogliere sangue e amore, hai trasformato il pugno della vita in carezza del perdono. La lettura dell’omelia, contenuta quasi integralmente nel libro, è trasformatrice: è una autentica pagina evangelica. Qual era il tuo stato d’animo nella notte in cui l’hai scritta?

Miguel Larburu

Era la notte tra la fine del ‘94 e l’inizio del ‘95. Sentivo le buccine delle imbarcazione nella grande baia di Algeri che, come è tradizione, suonavano a festa per l’anno nuovo. E io ero lì, davanti a un foglio bianco, pieno di dolore immenso, ma anche di una tremenda rabbia. Avevo perso brutalmente quattro amici, ero pietrificato, mi interrogavo su quali parole avrei potuto usare per esprimere due stati d’animo opposti. Alla fine è prevalsa la profonda gratitudine verso le migliaia di musulmani che il giorno prima ci avevano espresso la loro vicinanza in un grande raduno, e ho sentito riconoscenza anche per le migliaia di persone che con i loro messaggi da tutto il mondo ci avevano dimostrato una vera partecipazione. Non hanno vinto né il dolore né la rabbia (che pure ho espresso anche con durezza nell’omelia: non potevo tacere!): ha vinto l’amore che avevo imparato dal Vangelo, l’amore che mi era stato insegnato dai miei confratelli uccisi: l’amore manifestato  nella gratuità del dono che la Chiesa d’Algeria aveva sempre testimoniato. E alla fine il cuore ha trovato parole di pace.

 

Domanda

Dopo gli otto anni come Provinciale in un Paese devastato dalla guerra civile hai preso un anno sabbatico. Hai fatto un viaggio nel mare: nel libro dici che volevi pagare un debito alla tua vocazione iniziale. Cosa intendi dire?

Miguel Larburu

Qui sono tornato all’inizio della scelta di vita sacerdotale con le due caratteristiche che mi hanno accompagnato per tutta la mia vita. La prima: un orientamento verso la figura del “prete operaio”, che volevo concretizzare in un lavoro sul mare. Poi la vocazione iniziale, come ho detto, si è trasformata improvvisamente, ma forse è rimasta latente. Dopo gli anni di guerra e di responsabilità come Provinciale di Algeria e Tunisia ho dunque lasciato il deserto, mi sono imbarcato come mozzo su una nave di trasporto, ho navigato dall’Africa fino al mar Baltico: lavoravo come uno degli altri marinai, pulivo, verniciavo, facevo di tutto, spesso  con un mare sconvolto al massimo… L’ultima notte, mentre già eravamo sul ritorno verso il Paese Basco, è affondata la nave Erika, causando un disastro ecologico. Questa è stata la mia prova del fuoco marina, ma che bellezza e che soddisfazione una vocazione così realizzata  e completa!

La seconda caratteristica è la ricerca ignaziana, che per me rimane fondamentale fino a oggi. È diventata la colonna vertebrale dalla mia spiritualità e la via regale per prendere qualsiasi decisione: la navigazione in quell’anno sabbatico è stata un’altra occasione  per tradurre in realtà la “contemplazione in azione” ignaziana.

Domanda

Arriviamo a ieri: il confinamento imposto dalla pandemia. Nel libro si scrive che sei rimasto in azione anche quando il mondo è sembrato fermarsi. Vuoi dirci quale è stato, nel confinamento, il tuo ruolo di missionario, che per antonomasia è in movimento?

Miguel Larburu

Per me il vero confinamento era avvenuto anni prima, quando ero Provinciale durante il decennio nero della guerra civile. Allora ho sentito fino in fondo la solitudine del capo. Durante la pandemia ho cercato di far sentire a chi viveva nella paura e nell’isolamento  che non si è mai soli: l’ho fatto con WhatsApp, con email, col telefono. Io avevo il privilegio di uscire perché ogni sera col mio parroco celebravo la messa in una piccola chiesa: la messa era ripresa e diffusa da un canale televisivo locale ed era un modo per farsi prossimo a chi era confinato in casa e a chi aveva i suoi cari malati. Mi ha colpito soprattutto il sentimento della paura, così diffuso in quei mesi: accettare la nostra fragilità è in effetti una grande prova di vita.

Come missionario so che cosa è la paura: si è obbligati a lasciare spesso i luoghi in cui avevamo stretto relazioni, e ciò che ci aspetta è sconosciuto. Ho cercato di sintonizzarmi sulle angosce degli altri, facendo sentire che il tempo dell’esilio è anche tempo di grazia. Ho avuto tanto tempo per riflettere, per leggere, per pensare al post-pandemia: è stato un periodo in cui sono entrato dentro me stesso per stringere relazioni più intense con gli altri.

Domanda

Nel libro si parla della tua attività di volontario al Banco Alimentare della  città in cui adesso vivi: qui parli in arabo con gli immigrati nordafricani che aiutate. A questo proposito si aggiunge, nelle pagine del libro, che tu, dopo aver costruito ponti nel deserto di sabbia, sei diventato ponte per chi, giunto dal deserto, si sente smarrito, tra i “lontani”. E qui si definisce la tua vita come una “composizione ad anello”: ti riconosci in queste parole che non sono tue, ma di chi ha scritto la tua storia?

Miguel Larburu

Continuo a testimoniare la pratica di vita di Gesù, cioè a stare vicino a chi nella nostra società ha più bisogno. Continuo a sentire la bellezza del lavoro che è il compito che Dio ci ha assegnato e che sento come vicinanza a tutti. Tutti abbiamo bisogno l’uno dell’altro , anche se non ce ne rendiamo conto. In fondo è una occasione unica di esercitare l’amore in un mondo interconnesso come mai è stato prima: dunque è un modo di esercitare l’amore universale, come il Vangelo ci invita a praticare. L’affermazione è un tantino teorica. Concretamente mi impegno nel Sinodo in corso per diffondere il messaggio di una Chiesa che per incidere sulla società ha bisogno di cambiare molto!

Domanda

Che tipo di Chiesa hai in mente?

Miguel Larburu

Io continuo a sognare, ma ormai l’età è un limite reale. Sogno una Chiesa in uscita, sempre. Sarà una Chiesa di pochi, che saranno capaci di stare sempre con i “piccoli” del Vangelo, cioè con chi ha bisogno, non solo materialmente. Sogno una Chiesa che ascolta, formata da persone che sanno “stare nella relazione” , che non si chiudono nell’individualismo oggi dominante. Il Sinodo non è finora stato capace di mettere in gioco tutte le componenti dell’istituzione-Chiesa, soprattutto quelle critiche: aspettiamo la conclusione a fine 2024. Non so come la Chiesa possa uscire da questo Sinodo; certo, la pratica deve essere cambiata, perché uno dei motivi che hanno allontanato i praticanti è una liturgia incomprensibile a quasi tutti. Svolgere questo compito in piccole comunità, come alle origini, potrebbe essere una possibilità di rinascita. Io stesso animo le messe in una piccola comunità basca, e le relazioni si stringono bene: qualcuno dei nostri amici mi aiuta anche al Banco Alimentare.

Ma il problema è molto più complesso e non riguarda solo la Chiesa, ma la società: disintegrata, in apparenza edonista, nella sostanza, però, triste. Il futuro spaventa, si vive del presente: quale messaggio allora è più forte di quello di Gesù che ci fa alzare lo sguardo al cielo? Il Gesù che vive le sofferenze (ma anche le consolazioni) degli uomini, qui, su questa terra. A questo si deve tornare: bisogna cercare l’umano per trovare Dio.

Intervista a cura di Maristella Bellosta
traduttrice del libro Mare e sabbia

Koldo Aldai
Mare e sabbia. Padre Miguel Larburu. Una vita di dono nel deserto d’Algeria
EMI, 120 pagine, fotografie a colori e in b/n