Yvonne Vera è nata a Bulawayo, nell’attuale Zimbabwe (ex Rodhesia del Sud) nel 1964.
Dopo aver completato gli studi superiori nel suo paese, si trasferisce con la sua famiglia in Canada. Qui, alla York University di Toronto, consegue un dottorato in letteratura europea, specializzandosi nei formalsti russi.
La sua biografia testimonia la sua attenzione non solo per la letteratura, ma anche per le forme artistiche contemporanee, un’attenzione che – come ha scritto Francesca Romana Paci, studiosa di letteratura e traduttrice dei romanzi di Yvonne Vera in italiano, nonchè scrittrice a sua volta – si è tradotta in “una ricerca unica e organizzata sulla libertà, sul diritto della persona, sulle culture, sulle tradizioni, sulle civiltà e sul futuro africano”.
Negli anni Novanta la scrittrice fa ritorno in Zimbabwe, dove dal 1997 al 2003 dirige la National Gallery of Art di Bulawayo. Tradotta in una decina di lingue, nel 2002 Yvonne Vera è stata ospite del Festival della letteratura di Mantova. Muore a soli 40 anni nel 2005 per una meningite, conseguenza dell’AIDS.
“Le parole, l’alfabeto stesso, contengono una sfida che intendo raccogliere in pieno, non c’è argomento che io non mi senta di affrontare”, aveva dichiarato in un’intervista del 1997 sulla rivista Review.
E in effetti l’audacia stilistica, insieme alla scelta di temi. complessi come l’apartheid, le lotte di liberazione dal potere coloniale o la situazione delle donne in Africa, rappresentano la cifra che caratterizza tutti i testi di un’autrice considerata a livello internazionale fra le più interessanti della sua generazione africana.
Se già nella prima raccolta di racconti, Why Don’t You Carve Other Animals, pubblicata prima in Canada nel 1992 e nel 1994 in Zimbabwe, e poi nel romanzo Nehanda, uscito nel 1993, era emerso il suo gusto per un linguaggio denso e allusivo, è soprattutto con le opere successive – Without a name del 1994, Under the tongue del 1996, e Il fuoco e la farfalla e Le vergini delle rocce (entrambi pubblicati in Italia da Frassinelli, rispettivamente nel 2002 e nel 2004) – che Yvonne Vera elabora uno stile in cui la scelta di descrivere in modo a volte crudele la storia e i mali dell’Africa si coniuga con l’uso di una prospettiva deliberatamente femminile e soprattutto con una prosa estremamente musicale, in cui l’inglese, la “lingua arrivata per nave” (secondo la definizione della stessa scrittrice), si piega a sonorità che risentono l’influsso del kwela, un ritmo popolare nato all’inizio degli anni Quaranta nelle townships sudafricane.
Non a caso Michelle Cliff ha scritto sul Village Voice, a proposito del Fuoco e la farfalla, che “la musica risuona attraverso tutto il libro, quella musica che è una grazia salvifica, una via di fuga, lontano dalle asperità della vita, dall’occhio penetrante delle pattuglie di polizia”.
D’altra parte, proprio Yvonne Vera aveva contrapposto alla durezza della lingua postcoloniale della prima generazione (una durezza che aveva fatto proclamare a Wole Soyinka la decisione di “usare ogni parola inglese come una granata”) la possibilità nuova di utilizzare il linguaggio “come una piuma per accarezzare”.
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Maria Ludovica Piombino, Biblioteca Africana Borghero
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