Studi sulla presenza di schiavi africani nella nostra Europa dei secoli passati sono frequenti nel mondo accademico francofono e anglofono, molto meno in quello dei Paesi latini, Portogallo, Spagna e Italia. Eppure è proprio in quei Paesi che già nel tardo Medio-Evo si è sviluppata la tratta schiavista. I neri, bisogna dire, erano una minoranza rispetto agli schiavi provenienti dal Mar Nero: slavi, tartari, abkhazi, ungari, trafficati dagli ottomani.
Avevamo già segnalato sull’argomento un’importante mostra a Genova, con relativo ricco catalogo: Schiavi a Genova e in Liguria realizzata dall’Archivio di Stato alla fine del 2018.
Oggi vogliamo segnalarvi un libro che focalizza il fenomeno sull’Italia Meridionale: Il chiaro e lo scuro. Gli africani nell’Europa del Rinascimento tra realtà e rappresentazione, opera collettiva curata da Gianfranco Salvatore, Argo, 2021, pag. 478 con numerose illustrazioni.
Il curatore è un docente di etno-musicologia all’Università del Salento di Lecce, e suo è il saggio principale, che occupa un buon terzo del volume: “Musica, lingua, vita e socialità afro-europea dal teatro iberico alle canzoni moresche”.
Presenza di schiavi neri nel teatro e nella canzone popolari
Un soggetto davvero poco noto, ma estremamente significativo per la ricostruzione di questo particolare segmento della cultura popolare del Cinquecento italiano: la presenza degli schiavi neri nel teatro, nei componimenti poetici, nella danza, nella canzone del popolo dell’Italia centro-meridionale.
Collaborano a quest’opera collettiva: G. Boccadamo e H. Houben, storici, N. Cyffer e J. Lipski, linguisti, K. Lowe e M. Rak, storici della cultura, P. Kaplan, storico dell’arte.
I libri di storia del Rinascimento su cui abbiamo studiato in genere ignorano gli schiavi neri, ma gli autori di questo libro ci offrono una variegata gamma della loro presenza nella società dell’epoca, italiana e europea. Non dimentichiamo che a Lisbona, nei secoli XV-XVI, la presenza di schiavi, in grande prevalenza neri, si valuta al 10% di tutta la popolazione. Stessa percentuale stimata a Genova, secondo i curatori della mostra.
Una fonte semplice e immediata per reperire e illustrare questa presenza è la pittura europea. Due libri usciti in Francia la documentano abbondantemente: Noir – entre peinture et histoire, di Naïl Ver-Ndoye e Grégoire Fauconnier, e il catalogo della mostra Le modèle noir, de Géricault à Matisse.
I Normanni di Sicilia e i mori
Anche il libro curato da G. Salvatore usa questa fonte, in particolare Paul Kaplan nel saggio: “Il bianco e il nero nei ritratti doppi del Rinascimento” (pag. 71-90). Ma il libro sfrutta soprattutto altre fonti, che si rivelano abbondanti e originali: da un lato il teatro popolare napoletano, i testi delle canzoni moresche, i componimenti poetici, i balli popolari dell’epoca; dall’altro, la particolare sezione degli schiavi battezzati, curata dalla Arciconfraternita della Dottrina Cristiana e Catecumeni, nei registri di battesimo della Cattedrale di Napoli.
Meno sfruttati nel libro i documenti commerciali notarili e dei tribunali, conservati negli archivi storici, come invece avevano fatto i curatori della mostra genovese.
Ma sfogliamo un po’ il corposo libro e soffermiamoci su qualche pagina. Il primo saggio, Africani neri alle corti dei Re di Sicilia, Secoli XII-XIV, di H. Houben, fa ritornare indietro di qualche secolo le lancette della storia. Nel 1061 i Normanni di Roberto il Guiscardo invadono la Sicilia e mettono fine a due secoli di dominazione musulmana. Ma non finisce la presenza di africani alla corte e nei quartieri di Palermo: portati in Sicilia dai musulmani, oramai sono integrati nella vita dell’isola. All’epoca erano chiamati genericamente mori, con un po’ di confusione con gli stranieri di origine nord-africana. E di nuovi ne arrivano quando i Normanni occupano le città del Nord-Africa, snodi della tratta trans-sahariana: Gerba, Sfax, Tripoli, Annaba.
Tra di loro molti diventeranno intellettuali, soldati, musici. Non è difficile per uno schiavo dell’epoca recuperare la libertà. La loro presenza è documentata dalle miniature di numerosi codici dell’epoca. C’è anche chi fa carriera come Giovanni il Moro, figlio di una schiava nera, che diventa uomo di fiducia e capo del personale della corte palermitana di Federico II di Svevia.
Il colore della pelle non influisce sull’ascesa sociale
Un altro personaggio che ha lasciato traccia nella storia è uno schiavo nero acquistato in Tunisia da un funzionario del re Carlo II d’Angiò. Prende come nome lo stesso del suo padrone, Raimondo de Cabanni, si fa battezzare e acquista così la libertà. È una persona intelligente ed equilibrata, e sale in fretta la scala sociale, fino a diventare non solo amministratore di tutti i beni del suo ex-padrone, ma persino sovrintendente della casa reale. Scrive di lui anche Giovanni Boccaccio.
Conclude Houben: “Il colore della pelle non sembra aver avuto influenza nell’ascesa sociale di questi protagonisti” (pag. 69). All’apparenza, la società siciliana dell’epoca era inclusiva e non condizionata dal pregiudizio razziale.
Interessante, poi nel libro, anche il saggio successivo, di J. Lipski: La parlata afro-italiana e le sue rappresentazioni letterarie nei testi rinascimentali. Nella letteratura dell’epoca, e in particolare nei testi poetici per musica, compaiono personaggi dell’Africa, del nord e sub-sahariana, alle prese con la difficoltà di parlare e pronunciare correttamente la lingua italiana.
Sia nei madrigali, che nelle villanelle (canzoni popolari) si conservano delle espressioni usate dagli stranieri che si cimentavano con l’italiano, e che hanno finito con il creare un pidgin, il quale è poi, paradossalmente, diventato la lingua franca, il sabir, con cui i naviganti italiani e gli abitanti dei porti del sud del Mediterraneo potevano comunicare tra di loro.
Lipski si sofferma su alcune particolarità sintattiche: l’uso dei verbi sempre al modo infinito, e il ‘mi’pronome soggetto al posto di ‘io’. Un esempio tratto da La Cingana, testo teatrale di Gigio Giancarli, del 1550: “mi andar co’l to dinari, ti restar” (pag. 97).
Personaggi significativi
Del saggio successivo dell’inglese Kate Lowe, Siti inosservati, Luoghi della vita quotidiana di africani neri, vorrei ritenere solo due nomi e una data. Il primo è quello di Bartolomeo Marchionni. Socio della banca fiorentina Cambini, agente a Lisbona, “ebbe il dubbio onore di essere il primo vero commerciante di schiavi europeo: a partire dal 1486 deteneva il monopolio sull’importazione schiavile dall’area appena scoperta, conosciuta come il Fiume degli Schiavi, corrispondente alla costa dell’Africa occidentale tra São Jorge de Mina (oggi Elmina in Ghana) e il Benin” (pag. 123).
Il secondo nome: Vicente Lusitano. Era un nero meticcio, quindi libero: “teorico della musica e compositore, fu nel XVI secolo un uomo di indiscusso successo” (pag. 130). Nato nel 1522 in Portogallo a Villa Viçosa, nell’Alentejo, dove erano molto numerosi gli schiavi neri, fu portato a Roma all’ambasciatore portoghese preso la Santa Sede, e lì maturò i suoi studi musicali. Arrivò fino a Stoccarda, chiamato dal duca di Württember. Osserva Lowe: “Il caso di Vicente è particolarmente interessante in quanto la sua fama è totalmente dissociata dal colore della sua pelle: benché il suo nome sia noto tra i musicologi, fino ai tempi recenti quasi tutti ignoravano che fosse nero” (pag. 132).
L’inizio della tratta schiavistica europea
La data è quella del 1444: è l’anno del primo trasporto ufficiale di schiavi dall’Africa su una nave europea. Si può dire che è l’inizio della tratta schiavistica europea su larga scala, preludio di quella atlantica che inizierà un secolo dopo. 240 schiavi neri, incatenati, furono presentati al principe portoghese Enrico il Navigatore e a una grande folla nel porto della città di Lagos, estremo sud del Portogallo. Lagos diventerà il principale sito schiavistico europeo.
Uno storico dell’epoca, Gomes de Zurara, riporta Lowe “segnala che queste genti erano state messe in catene per motivi religiosi, per il bene dell’anima loro, affermando – dispiaciuto per le loro sofferenze – che anche loro erano figli di Adamo” (pag. 138).
Fino a quell’anno la tratta dei neri verso le città europee era monopolio degli arabi del Nord-Africa, che controllavano le rotte trans-sahariane. Questa tratta sboccherà sulle città del Mediterraneo ancora per un paio di secoli, ma poi alimenterà soltanto i sultanati medio-orientali facenti parte dell’Impero Ottomano.
Schiavi convertiti al cristianesimo
Altro saggio interessante è quello di Giuliana Boccadamo: A Napoli: “Mori negri” tra Cinque e Seicento. Abbiamo già citato l’Arciconfraternita della Dottrina Cristiana e Catecumeni, fondata del 1577 dal cardinal Paolo Burali d’Arezzo, arcivescovo di Napoli. Aveva come scopo di convincere gli schiavi di religione musulmana a convertirsi al Cristianesimo. Chi accettava però incontrava spesso l’opposizione del padrone, timoroso di perdere lo schiavo divenuto cristiano. “Non a caso il priore della Confraternita aveva l’obbligo di denunciare alle autorità del Viceregno quei padroni che si fossero opposti alla catechizzazione dei loro schiavi” (pag. 147). E continua Boccadamo: “La città era divisa in zone affidate ai vari confratelli incaricati di istruire e di sorvegliare gli schiavi, affinché non organizzassero fra di loro progetti di fuga” (pag. 148). Una timida azione della Chiesa, dunque, per mitigare lo schiavismo a Napoli. Dal censimento di tutti gli schiavi registrati che fa l’autrice, fermiamoci su un gruppo particolare: 143 maschi e 35 femmine proveniente dal Bornu.
Il regno del Bornu e la lingua Kanuri
A partire da questo punto il Bornu diventa centrale nel libro curato da Salvatore. Ricordiamo cosa è il Bornu: è uno dei più grandi imperi dell’Africa centro-occidentale. I suoi inizi risalgono al secolo 8°, quando dei piccoli regni dell’etnia tebu si coalizzano per dare vita al grande regno di Kanem, sulle rive del lago Ciad. Dopo un periodo di decadenza, il popolo kanuri prende il potere e amplia i confini di quello che ormai può essere chiamato impero, l’Impero del Bornu, che ora si estende sugli attuali Nigeria orientale, Camerun settentrionale, Niger meridionale e soprattutto Ciad, fino al deserto della Libia.
E siamo così arrivati al saggio centrale, quello di Salvatore, già citato: un’analisi della lingua e della musicalità delle canzoni moresche e del teatro popolare, e dell’ambiente socio-culturale che da essi emergono. Sono una fonte, inaspettatamente ricchissima, per ricostruire la presenza degli schiavi africani nella Napoli del Cinque e Seicento.
Due testi pubblicati nel Cinquecento offrono a Salvatore il materiale per la sua analisi: Secondo libro delle Muse a tre voci: Canzoni Moresche di diversi autori novamente raccolte et poste in luce, di autore anonimo, stampato a Roma dall’editore Antonio Barré nel 1555; e poi il Secondo libro dei Madrigali di Anselmo Reulx a quattro voci, con bataglia moresca Nouamente da lui composto et posto in luce, pubblicato a Venezia dall’editore Antonio Gardane nel 1546, autore Anselmo de Reulx.
Un glossario kanuri ricavato dalle canzoni moresche
I personaggi delle canzoni moresche, assicura Salvatore, sono tutti africani, in parte schiavi. Musica e parole sono ugualmente fondamentali per ritrovare le tracce africane: i ritmi serrati richiamano il suono dei tamburi dell’Africa, e i testi mescolano il dialetto napoletano con frasi e espressioni di una lingua misteriosa, che l’autore identifica sembra ombra di dubbio con il kanuri del Bornu.
Salvatore si dilunga nella sua profonda analisi, musicale, testuale, linguistica, sociologica, ampliando l’orizzonte con dei confronti con la letteratura moresca ispanica. Molto interessante è la ricostruzione di un piccolo glossario e frasario dell’antico kanuri, che ricava dai testi delle canzoni. Due esempi: il saluto “A la lapia”, che corrisponde al kanuri “ala lafia”, “Allah sia pace”. O il grido “Le le calia”, corrispondente al kanuri “Lele kalea”, “Ehilà, schiavi”. Oppure l’espressione molto frequente “Bernaguallà”: che in kanuri vorrebbe dire: “Gente del Bornu, per Allah”, un grido di incitazione quando è necessario che gli schiavi uniscano gli sforzi per una causa comune.
Nel 1603 i gesuiti fondarono a Napoli l’Accademia dei Linguaggi, per impartire ai futuri missionari destinati alle “terre degli infedeli” una preparazione linguistica: è provato che il kanuri fosse una delle lingue studiate, e insegnate proprio da locutori madre-lingua, gli schiavi razziati dall’Africa Centrale e trafficati a Napoli.
È la società popolare napoletana del Cinquecento che emerge da queste canzoni moresche, e l’autore la ricostruisce in modo vivo e fresco, completando il quadro con fonti parallele.
Due tipi di trafficanti di schiavi
È verosimile, scrive Salvatore, che gli schiavisti fossero di due tipi: “piccoli trafficanti provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria, che attingevano alla tratta trans-sahariana attraverso i mercati tripolitani, e mercanti catalani (all’inizio prevalenti), che, assieme a genovesi e toscani lavoravano invece su schiavi dell’Africa Occidentale” (pag. 210). Si evidenziano dunque i due flussi che continueranno fino all’Ottocento: quello tutto marittimo, atlantico, e quello sahariano e mediterraneo.
Un’altra analisi interessante di Salvatore è sul pidgin afro-napoletano, comparato con la fala de pretos portoghese, e la habla de negros spagnola: molte sono le similitudini e molte le tracce rimaste nei canti carnevaleschi dei tre paesi.
Concludono il volume due saggi metodologici sull’evoluzione del kanuri e il suo contributo alle canzoni moresche, e un altro sulla metodologia e l’uso delle fonti nello studio delle immagini di neri da parte di pittori europei.
Una piccola dimenticanza che si può far notare ai vari autori: il contributo di ex-schiavi neri alla Chiesa dell’Italia meridionale. Non sarà certo un caso che il co-patrono di Palermo è San Benedetto il Moro, un ex-schiavo nero, e molti altri patroni di città meridionali sono raffigurati con la pelle scura, ad esempio San Calogero il Nero o San Filippo di Agira. Si vedano gli studi della palermitana Giovanna Fiume, in particolare Il Santo Moro, Franco Angeli, 2002. Sarebbe interessante scavare negli archivi diocesani e parrocchiali, per ritrovare la presenza e il contributo dei neri alla vita della Chiesa dell’Italia del Sud.
Luoghi della memoria collettiva
E concludo con un osservazione di un precursore degli studi sulla schiavitù nel Mediterraneo, Salvatore Bono. Nel suo libro Schiavi. Una storia mediterranea stima che fra il Rinascimento e l’età napoleonica in Europa la schiavitù abbia coinvolto nel complesso quattro-cinque milioni di persone. Nessuno può più negare che sia stata una vera e propria tratta, di poco inferiore a quella atlantica e araba.
E va rivolta anche a noi europei la domanda che il giornalista americano Edward Rothstein rivolgeva ai lettori del New York Times nel 2010, dopo aver visitato l’African Burial Ground: “Tra le cicatrici lasciate dall’eredità della schiavitù, una delle peggiori sta in un’assenza: dove sono i memoriali, i cimiteri, le strutture architettoniche o i santuari devozionali che di solito creano e nutrono la memoria collettiva?”
P. Marco Prada
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