Una coppia di amici della SMA di Feriole, che condividono con noi il cammino di fede, raccontano come l’Africa si è fatta vicina, anzi, ormai fa parte della loro vita.

È capitato per una serie di circostanze, che ci siamo trovati l’Africa in casa. Un rovesciamento rispetto al desiderio di andarci per davvero, raggiungendo in Camerun l’amico don Eric, o padre Davide, padre Lorenzo, o unendoci agli amici del DUMA, o dell’Associazione Nuova Famiglia che periodicamente volano in Costa d’Avorio o in Liberia, in Etiopia o Tanzania per verificare progetti e portare nuovi semi di Vangelo e di promozione umana. Li vediamo tornare affaticati, ma ricchi di lacrime e di sorrisi a dare nuovo slancio alla vita!

Per noi non è così, è piuttosto la quotidianità, poco “romantica”, ma non banale, di condividere con alcuni giovani migranti africani la fatica dell’integrazione. Li abbiamo incontrati attraverso il Gruppo Rinascita con padre Lorenzo e Isabel, ma solo dopo tanto tempo ci hanno raccontato le loro storie, racconti smozzicati, strappati a fatica ai loro cuori feriti.

Del resto, che parole trovare per dire del compagno scivolato giù dal camion e abbandonato nel deserto, dell’amico finito a bastonate nel lager libico, del fratello inghiottito dalle onde! Le loro storie si ripetono ancora. Lo testimonia un recente reportage “Il fattore umano” trasmesso su Rai 3: shock visivi per non cedere all’abitudine, all’indifferenza. Decine di migliaia di migranti che fuggono da guerre e persecuzioni o cercano un futuro migliore per sé e per i propri figli e scoprono, una volta sbarcati sulle nostre coste, che quello che li aspettava non è il paradiso immaginato.

Siamo venuti a conoscere meglio le storie dei nostri ragazzi, accompagnandoli e aiutandoli a preparare con gli avvocati i dossier da presentare in Questura e poi alla Commissione per la richiesta di protezione internazionale: esercizio di pazienza, di sottomissione alle lungaggini burocratiche, nelle file interminabili all’alba in attesa dell’apertura degli sportelli…Coraggio! La parola d’ordine!

E di coraggio ne hanno tanto e tante riserve di speranza. Molte volte, infatti, abbiamo provato ammirazione per la loro capacità di reagire a tanta avversità; ci siamo inchinati di fronte ad una fede semplice e concreta, propria di chi – come dicono essi stessi – affida la propria causa a Dio, che sa ogni cosa e che al tempo giusto interviene e provvede.

Hai un problema? – ripete G… – non preoccuparti: chiama Dio. Il numero di codice è facile da ricordare GER 33,3” Un altro ci rassicura: “Ho fatto tutto quello che potevo. Adesso questo non è più un problema mio! L’ho consegnato a Dio! E Lui penserà a cosa è bene per me.”

In questi incontri non ci sono solo aspetti pratici, affettivi ed emotivi. Quello che abbiamo imparato è che l’accoglienza non è senza fatica e spesso genera conflitto. Significa, infatti, permettere che ci sia un’intrusione nella tua vita di una mentalità diversa, di una cultura distante dalle nostre categorie, ad esempio nel modo di intendere le gerarchie, i legami familiari, i legami con le tradizioni, il rapporto con il cibo, il rapporto con il denaro, condizionato dalle richieste pressanti da casa, nei villaggi di origine, dove sono convinti che qui ci sia ricchezza per tutti.

Accogliere questi giovani che sentiamo come figli, significa rinunciare a conoscere tutto di loro, accettare di non capire tutto, permettere loro di conservare la propria identità. In questi anni, capito questo, è avvenuto per noi un reciproco riconoscimento che ci ha fatto prendere le misure di noi stessi, e nel confronto a volte conflittuale, ci ha arricchiti, ha allargato i nostri confini mentali, ha ampliato e resa concreta la nostra fede attraverso i gesti semplici dell’amore.

Ci diciamo, io e mio marito, che anche questa è missione, per rispondere ad una domanda esigente e radicale che ci viene dall’inizio del mondo: “Sono forse io il custode di mio fratello?”

Gabriella e Max

L’Articolo è pubblicato anche sulla rivista SMA
di animazione missionaria Il Campo

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