Accostamento di artisti europei e sudafricani
Conclusa la tappa monzese, la mostra d’arte “Da Monet a Bacon. Capolavori della Johannesburg Art Gallery” approda anche a Genova, dove fino al 3 marzo 2019 sarà visitabile al Palazzo Ducale.
La Galleria di arte moderna e contemporanea di Johannesburg è certamente la più importante di tutta l’Africa. Conserva alcune opere dei più importanti pittori europei dell’Ottocento e del Novecento: Degas, Van Gogh, Cézanne, Picasso, Andy Warhol.
Ma conserva quadri che è difficile ammirare altrove: opere di artisti sudafricani, rappresentanti dunque della pittura moderna e contemporanea del continente africano. E ciò in un momento in cui gli artisti africani sono ospiti fissi nelle migliori gallerie del mondo, e i musei di arte contemporanea si disputano i loro migliori lavori.
Con questa mostra abbiamo finalmente l’occasione di fare un viaggio nel mondo artistico del Sudafrica, che sebbene dipendente dalle correnti pittoriche europee, ha saputo elaborare dei cammini originali. Gli artisti presentati sono: Maggie Laubser, Maud Sumner, Selby Mvusi e George Pemba. Ci soffermiamo brevemente su ciascuno di loro.
Maggie Laubser, l’espressionismo sudafricano
Partiamo da Maria Magdalena Laubser (1886-1973). È colei che ha portato l’espressionismo in Sudafrica, e ha rotto con una tradizione pittorica ingessata, che dipingeva le donne sudafricane come se fossero delle borghesi londinesi dell’epoca vittoriana. Nata in una fattoria da una famiglia di agricoltori afrikaner, impara da sola la pittura, incoraggiata e consigliata da Edward Roworth, pittore abbastanza convenzionale, ma capace di notare le qualità originali della giovane pittrice. Grazie a Roworth, Maggie entra nel circolo artistico di Città del Capo, dove conosce il console dei Paesi Bassi, che nel 1913 gli paga un soggiorno di studio nel suo Paese.
Da qui effettua viaggi di studio in Belgio, in Inghilterra, e anche in Italia, dove risiede per lunghi periodi sul lago di Garda, con approfondite visite alle pinacoteche di Venezia e Milano. Si reca da ultimo anche in Germania, dove rimane colpita dalle opere degli espressionisti Emil Nolde, Max Pechstein, Franz Marc e Erich Waske. Converte allora la sua arte a questi nuovi canoni, e tornata in Sudafrica li sviluppa e li adatta. Ma è stroncata all’inizio dai critici d’arte, che non sanno svincolarsi dai modelli tradizionali della pittura sudafricana.
Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale le sue opere raggiungeranno una notorietà internazionale, e sarà invitata ad esporre nelle principali mostre dentro e fuori dal Sudafrica. Il suo stile evolve, inglobando nell’espressionismo elementi di fauvismo e di pastoralismo, che ricava dall’ambiente rurale dove è nata e cresciuta, e dove si rifugiava sempre per trarre ispirazione.
Maud Sumner: la religiosità protestante, cemento della società afikaner
Maud Frances Eyston Sumner (1902–1985), è originario di Johannesburg. Studia letteratura all’Università inglese di Oxford, ma scopre la sua vera vocazione pittorica alla Westminster School of Art. Effettua un tirocinio a Parigi, dove è accolto negli Ateliers d’Art Sacré, e diviene discepolo dei maestri George Desvallieres e Maurice Denis, che nelle loro opere fondono scene di vita quotidiana con soggetti religiosi.
Ritorna in Sudafrica, dove la sua fama lo aveva preceduto. È apprezzato e premiato in varie accademie. Nelle sue opere ritrae scene intime familiari, che vogliono far rivivere la religiosità protestante che è alla base della società e della cultura afrikaner. Ma notevoli sono anche i suoi acquerelli di paesaggi velati ed evocativi.
Selby Mvusi: il genio creativo dei pittori neri
Con Selbourne Charlton Sobizwa (detto Selby) Mvusi inizia una nuova era nell’arte pittorica sudafricana: è un nero, nato nel 1929 a Richmond, nella provincia del KwaZulu-Natal, formatosi non in Europa ma in Sudafrica e in America (dove ottenne un Master in Arte alla Pennsylvania State University).
Veniva da famiglia molto religiosa che lavorava la terra, ma cambiò vita quando suo padre fu nominato Segretario Generale del Students Christian Movement dell’Università di Fort Hare, nella Provincia dell’Eastern Cape, l’unica università all’epoca aperta a neri e indiani. Conobbe l’ambiente cittadino, e cominciò la sua carriera scolastica. Aderì alla Lega Giovanile dell’African National Congress, e fu sempre molto attivo nelle organizzazioni studentesche.
Sentì presto la vocazione alla pittura, ma a Fort Hare non c’erano corsi di arte. Si appoggiò allora ad alcuni pittori affermati per la sua formazione, in particolare a Harold Strachan e Peter Clark. Ebbe poi l’occasione di ottenere un diploma alla Rhodes University, a Grahamstown (oggi Makhanda, Provincia del Capo Orientale), e di iscriversi al Ndaleni Teachers Training College, che dispensava l’unico corso di arte che anche i neri sudafricani potevano frequentare sotto il regime dell’apartheid. Oltre alla pittura imparò anche la scultura. Ma non era solo un artista, ma anche un poeta e uno studioso dell’arte e del suo impatto sulla società e sul cambiamento sociale.
Ma era anche un brillante oratore, dote che gli valse un invito del Clarke College di Atlanta (Gergia, USA, uno dei pochi Colle americani accessibili ai neri) a dare alcune conferenze nel 1960. Ritornato in Sudafrica, intimorito dal clima di persecuzione politica verso i neri instaurato dalla minoranza bianca, decise di trasferirsi all’estero con la famiglia. Trovò un posto di insegnante al Goromonzi High School di Salisbury, nell’attuale Zimbabwe. Nel 1962 ottenne il prestigioso incarico di assistente alla facoltà di Belle Arti nella University of Science and Technology di Kumasi, in Ghana, primo nero ad occupare questo ruolo. Nel 1965 fu nonimato “senior lecturer” al Dipartimento di Belle Arti dell’Università di Nairobi. Qui trovò una piccola comunità di altri neri sudafricani esiliati come lui, di cui divenne uno dei leader.
Partecipò alla primo Festival delle Arti Negre di Dakar nel 1966, dove fu invitato a tenere una conferenza. Le sue ultime opere non riflettono più quello che fu il suo impegno giovanile politico anti-apartheid. La sua arte si ispirò ai canoni dell’astrattattismo e del cubismo, adattati a soggetti neri. Ma non disdegnò mai di ritrarre in modo realistico le persone del suo ambiente, in atteggiamenti quotidiani, che comunicano la sofferenza e l’emarginazione di una società segregata.
È morto tragicamente per incidente stradale nel 1967 a Nairobi, ad appena 38 anni.
George Pemba: il realismo sociale nei ritratti della gente del popolo
Anche George Milwa Mnyaluza Pemba (1912-2001) era nero, originario di Hill’s Kraal, non lontano dalla grande città portuale di Port Elizabeth, Provincia del Capo Orientale. Fu educato nelle scuole della locale Missione Protestante. Fu incoraggiato dal padre a coltivare il disegno e la pittura, cominciando con il ritrarre familiari e lavoratori dell’azienda paterna sui muri di casa.
Nel 1931 ottenne un diploma di Insegnante al Lovedale Training College, alla cui tipografia dava una mano disegnando illustrazioni per i suoi libri. Lavorò poi come insegnante alla Wesleyan Mission School a King William’s Town, per poi trovare un impiego meglio remunerato nel Tribunale per i Nativi, e poi nell’amministrazione della Township.
Nel 1934 avvenne un fatto curioso: ricoverato per un’operazione di appendicite acuta, passò la sua convalescenza facendo dei ritratti del personale medico dell’ospedale. Questi disegni attirarono l’attenzione del pittore paesaggista Ethel Smythe, che lo prese in simpatia e si offrì di aiutarlo per sviluppare le sue qualità. Possedeva una ricchissima raccolta di libri d’arte, e il giovane Pemba passava ore a sfogliarli, rimanendo incantato davanti alle opere dei classici europei e dei moderni impressionisti.
Per la formazione artistica di Pemba furono determinanti due borse di studio per seguire i corsi di arte visuale alla Rhodes University di Makhanda (Capo Orientale), che gli diedero la possibilità di seguire uno stage nello studio dell’affermato artista sudafricano Maurice van Essche. Qui avvenne un incontro determinante per il suo futuro, quello con il carismatico Gerard Sekoto, nero come lui, artista polivalente, che spaiava dalla pittura e alla musica. Costui lo convinse a dedicarsi totalmente alla pittura, e a cambiare tecnica, passando dall’acquarello alla pittura a olio. Lo incoraggiò a intraprendere un viaggio all’interno del paese, visitando i villaggi e la campagna, dove viveva la popolazione indigena, per ritrarla nel suo ambiente naturale, durante le dure occupazioni quotidiane.
Ma l’arte non gli dava da vivere, e perciò si adattò a gestire una drogheria, che battezzò “Gabby’s Store, e a dare corsi di arte ai bambini neri del South African Institute of Race Relations.
La particolarità della pittura di Pemba sono i ritratti di gente del popolo, raffigurata mentre esegue il duro lavoro di tutti i giorni. La tonalità dei colori è molto forte, e l’espressività dei volti manifesta la dignità dei neri che l’apartheid non riesce a scalfire. La sua capacità di immedesimarsi nella realtà che ritrae hanno fatto di lui il precursore della corrente artistica del “realismo sociale sudafricano”.
Visse 47 anni di matrimonio felice con Eunice Nombeka, che gli diede otto figli. Morì quasi novantenne a New Brighton, nel comune urbano intitolato a Nelson Mandela, nella sua natale Provincia del Capo Orientale.
Una donna all’origine della Johannesburg Art Gallery
La splendida mostra del Palazzo Ducale genovese consente al pubblico di scoprire anche l’affascinante storia della Johannesburg Art Gallery. Principale protagonista della nascita e della formazione della collezione museale fu Lady Florence Phillips, moglie del magnate dell’industria mineraria Sir Lionel Phillips. Donna dal grande fascino, a sua volta collezionista, convinta che la sua città dovesse avere un museo d’arte, persuase il marito e alcuni magnati dell’industria a investire nel progetto. Già alla sua apertura, il museo presentava una selezione di opere di straordinaria qualità e modernità, un nucleo arricchitosi poi negli anni, grazie a nuove acquisizioni e donazioni.
A cura di Marco Prada