Il quotidiano zambiano di proprietà statale, The Times of Zambia, il 2 ottobre scorso ha pubblicato in prima pagina, in tutta evidenza, un articolo scritto in cinese (pittogrammi e lingua mandarina). Più in piccolo c’era la traduzione in inglese.

Titolo: “Possiamo farcela”. Argomento: la politica del presidente Lungu verso i donatori e investitori internazionali, cinesi prima di tutto.

Lettori e blogger zambiani hanno protestato rumorosamente. In un tweet Masauso Mannasseh scrive: “Sono del tutto sbalordito! Dove è il nostro orgoglio di popolo e di nazione?”

Ma anche giornalisti di altri paesi africani hanno commentato con toni negativi la notizia. La giornalista sudafricana Stella Mapenzauswa si chiede se lo Zambia, avendo accettato prestiti dalla Cina in cambio di risorse minerarie, non si sia messa da solo in una trappola. Con queste stupide trovate sui giornali, il presidente Lungu non vuole nascondere il fatto che la crescita del debito consegna il suo paese mani e piedi legati alla Cina?

 

Qualche settimana fa, nel vertice Cina-Africa, il presidente cinese Xi Jinping annunciava trionfante la concessione di 60 miliardi di dollari di prestiti ai paesi africani. I presidenti africani hanno applaudito, ma nei loro paesi sono sempre di più gli analisti e i politici preoccupati del debito verso il dragone cinese che non fa che accumularsi.

Intanto cresce il nervosismo degli Stati Uniti per il ruolo invadente e aggressivo che la Cina sta giocando sullo scacchiere mondiale. Ray Washburne, direttore dell’Overseas Private Investment Corporation (OPIC), agenzia di sviluppo americana, calcola che sono già 15 i paesi africani che si sono super indebitati con la Cina, incluso lo Zambia. Un altro campanello di allarme lo suona Masood Ahmed, presidente del gruppo di riflessione del Center for Global Development: il debito dei paesi africani è maggiore di tutti gli altri debiti messi insieme, contratti con la Banca Mondiale, il Club di Parigi, le Banche regionali di sviluppo. Dal 2000 a oggi sono 132 i miliardi che i paesi africani hanno preso in prestito dalla Cina, e che devono cominciare a restituire.

 

Jean-Louis Billon, ex ministro del Commercio della Costa d’Avorio, e imprenditore di successo, mette in guardia contro le enormi difficoltà che hanno i paesi africani a reperire le risorse necessarie a rimborsare il debito verso la Cina: evasione fiscale gigantesca, assenza di una tassazione sui redditi delle persone fisiche, economie basate sul settore informale e sull’esportazione di materie prime dai prezzi molto instabili. “Il vero problema – afferma – non è tanto il volume del debito, ma la sua sostenibilità”.

Gli Stati Uniti da tempo sono preoccupati per il debito dell’Africa verso la Cina, strumento di una nuova colonizzazione e di destabilizzazione dell’intero ordine mondiale. La Cina, realizzando infrastrutture nei trasporti e nelle comunicazioni, fornendo la sua tecnologia in ambiti strategici, di fatto sta esercitando un controllo totale, lecito e illecito, sulle economie e sulla politica interna di vari paesi africani.

Il 6 ottobre scorso il Senato ha approvato la creazione del IDFC (International Development Finance Corporation), un fondo pubblico, dotato di 60 miliardi di dollari, che finanzierà progetti di sviluppo in Africa. È uno strumento di “diplomazia economica” per contrastare l’influenza di Pechino sul continente africano. L’IDFC, secondo il senatore democratico Chris Coons, “vuole aiutare i paesi africani a diventare più autosufficienti. Vuole ridurre la povertà nelle zone critiche per la sicurezza americana. Vuole sbarrare l’influenza cinese sui paesi in via di sviluppo”.

Totalmente opposto l’atteggiamento del governo italiano: Matteo Salvini ha voluto come vice-ministro allo sviluppo economico Michele Geraci, che ha insegnato Scienze delle Finanze a Shangai. Geraci, vero entusiasta del Dragone, ha annunciato che l’Italia firmerà un memorandum economico con la Cina, che prevede un programma massiccio di investimenti cinesi in Italia nel settore ferroviario, aereo e spaziale, nel quadro del progetto One Belt One Road.

A cura di p. Marco Prada

Foto: China Embassy; Confucius Institute;