Oceano Indiano, spazio di incontro di popoli
Più che una barriera, l’Oceano Indiano è stato per millenni lo spazio in cui l’Africa e l’Asia si sono incontrate, hanno scambiato sementi e merci e si sono reciprocamente influenzate. Gli archeologi, scavando nella depressione vulcanica di Ngorongoro (Tanzania del nord), hanno trovato delle tombe risalenti a 2800 anni fa: vi erano conservati gioielli in cornalina, una pietra preziosa, senza dubbio provenienti dall’India. Ma anche gli yemeniti, i persiani, i cinesi e gli indonesiani hanno lasciato ampie tracce dei loro passaggi sulle coste dell’Africa Orientale.
La nostra storia comincia con un’antica migrazione bantu, partita dalle montagne del Camerun e arrivata alle coste della Somalia. Siamo all’inizio dell’era cristiana. Questi popoli parlavano la lingua sabaki, erano agricoltori e sapevano fondere il ferro. Persino il romano Plinio il Vecchio ne ha sentito parlare e ha scritto di loro.
Nell’8° secolo, mercanti arabi convertiti all’Islam si istallarono a Zanzibar. Questa incantevole isola, al largo di Dar es-Salam, era già abitata e produttiva. L’avevano battezzata i persiani: Zanj-i-bar, “terra dei neri”. Essi, ed altri asiatici, vi approdavano per comprare avorio, carapaci di tartaruga, corni di rinoceronte, oro, rame, ma soprattutto schiavi.
Per ampliare i propri commerci, gli arabi sbarcano poi sulle coste del continente, sawahil nella loro lingua. Nasce così la grande civiltà swahili, diffusa in buona parte dell’Africa Orientale, dalla Somalia al Mozambico, dal Kenya all’est del Congo.
I bantu e la cultura araba e persiana
La cultura africana bantu assorbe molti elementi della cultura araba e persiana, a partire dalla religione islamica fino all’organizzazione sociale e politica. Quest’ultima è improntata sul modello delle città-stato mercantili, dominate da un’élite che importa beni di prestigio dall’Asia, come le porcellane cinesi o il vasellame e la gioielleria indiana.
Mogadiscio, Malindi, Mombasa, Jongwe, Kilwa: la civiltà swahili non crea grandi imperi, ma una serie di ricche città portuali, caratterizzate da imponenti costruzioni in pietra, da sontuose moschee, da un rapporto di dominazione economica sulle campagne circostanti. Il ceto più abbiente, i waungwana, si vestono con stoffe indiane, e mangiano il riso, dapprima importato e poi fatto coltivare lungo i corsi d’acqua.
Spendiamo una parola di più su una di queste città-stato: Kilwa. Si estendeva sull’isola omonima, e sulla vicina costa, a sud della Tanzania. Una posizione da cui controllava le rotte marittime che venivano dall’Asia e che portavano a Madagascar. Ma anche le vie terrestri, che la collegavano con il regno dello Zimbabwe, da cui importava l’oro e il rame. Nel 13° secolo degli yemeniti vi si istallano e ne prendono il potere. Il sultano al-Hasan ibn Sulayman costruisce una magnifica moschea, di cui rimangono le rovine, e che è diventata Patrimonio dell’Unesco.
Madagascar, terra di migranti
Il Madagascar è un’isola grande due volte l’Italia, distante 400 km dal Mozambico. Il nome significa “fine della Terra”, e deriverebbe addirittura dal sanscrito, antica lingua dell’India. È un enorme parco naturale, con habitat incontaminati e variati che conservano specie di animali e di piante uniche al mondo Le tracce della presenza dell’uomo risalgono a circa 3200 anni fa. Erano certamente antenati dei khoi-san, i cacciatori-raccoglitori dell’Africa meridionale.
Nell’8° secolo della nostra era, colonie di migranti provenienti dall’attuale Malaysia e Polinesia vi approdarono e vi si installarono, mescolandosi con la popolazione locali. Nei secoli successivi raggiunsero “l’isola rossa” popolazioni swahili della costa africana, arabi e persiani. Ma la più importante è la migrazione dei secoli 13-15°: indiani e javanesi si istallarono nel nord e nell’est e imposero le loro concezioni religiose e politiche alle popolazioni locali, Vezo e Vazimba, in particolare la divinizzazione del re e del riso. È grazie a loro che nascono vari regni, il più potente dei quali fu il Regno Merina, abbattuto dai francesi nel 1895.
Scavi effettuati a Vohémar, all’epoca prospera città portuale islamizzata, situata sulle coste orientali, hanno portato alla luce specchi di bronzo e porcellane cinesi, prodotti di lusso destinati alle classi dominanti.