“È la zona, oggi, nella quale abbiamo più vulnerabilità, dove le popolazioni sono veramente nel bisogno, spogliate di tutto, con persone sfollate e dove i bisogni sociali sono enormi. Pertanto il programma che abbiamo lanciato è destinato a dotare le popolazioni di dispensari, scuole e, cosa ancora più importante, di pozzi”, spiega Mikailou Sidibé, capo del dipartimento strutture del G5 Sahel.
Sidibé allude a un finanziamento del governo tedesco che, nel quadro del G5 Sahel (forza congiunta di militari della Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Chad), darà la priorità alle popolazioni vittime del terrorismo. La zona scelta è quella del Liptako-Gourma chiamata delle ‘tre frontiere’: Burkina Faso-Mali-Niger, dove la presenza dei gruppi terroristi accentua la povertà e l’insicurezza.
In realtà le tre frontiere sono altre!
La prima frontiera è quella dell’ipocrisia bellico-umanitaria e che consiste, come da copione di un film già visto altrove, nel preparare il terreno alla creazione del caos, facilitarne il mantenimento e infine arrivare, tramite gli attesi finanziamenti, come i salvatori della patria. Fuochisti e pompieri a seconda delle convenienze, per ‘attirare’ fondi, finanziamenti per progetti di sviluppo.
Esattamente come per i Gruppi Armati Terroristi e le ‘Forze Regolari’, di militari locali e stranieri. Commerci, armi e geopolitiche delle risorse si aggrovigliano per formare un fronte unico: finchè c’è guerra c’è futuro per i fabbricanti di guerre.
Analogamente, accade lo stesso processo nel delicato ambito migratorio. Prima si crea la frontiera esteriore dell’Europa nel Sahel, impedendo ‘manu militari’ la libera mobilità dei migranti e, in cambio, si introducono piani fasulli di sviluppo, chiamati ‘Fondi Fiduciari’, che vanno alle ‘radici profonde delle migrazioni’.
La logica è la stessa di cui sopra: solo cambia il settore di intervento, gli attori e i necessari dispositivi di applicazione. Anzitutto con la fabbricazione e l’imposizione di un concetto applicabile ed esportabile di ‘frontiere’. Seguono poi i meccanismi di formazione e di gestione delle stesse con EUCAP Sahel (Missione civile di sostegno alle capacità di sicurezza interiore), l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, OIM, per i rimpatri (naturalmente volontari) e infine il mondo umanitario.
Quest’ultimo si occupa, grazie ancora ai finanziamenti europei, di lenire le ferite della carne dei migranti, senza beninteso mettere in discussione il sistema che produce ciò. Questa è la seconda frontiera del Sahel.
La terza frontiera, invece, somiglia paurosamente ad un abisso che separa, attraversandolo da cima a fondo, il mondo stesso. Un abisso che, come nella nota parabola del ricco che banchetta quotidiamente con gli amici nel suo palazzo e del povero Lazaro che, invisibile ai suoi occhi, giace alla porta cercando di sfamarsi con le briciole che cadono dalla sua mensa.
L’abisso esiste e cresce grazie anche alla globalizzazione dell’invisibilità dei numerosi ‘Lazzari’ che oggi assumono l’onore e l’onère di trasformare il mondo a partire dalla debolezza. L’abisso tra Nord e Sud non è solo tra i continenti ma si riproduce all’interno degli stessi continenti, nei Paesi, nelle città e nelle campagne dimenticate, tra le generazioni e infine nello spirito umano più profondo chiamato cuore.
Questa terza frontiera, l’abisso, è quella che rappresenta il modello e la produzione delle altre due precedentemente citate. In genere si manifesta all’esterno con muri, reticolati, campi di detenzione, cimiteri delocalizzati e confinamenti di popoli interi.
Ecco perché i guardiani delle radici e i costruttori di ponti sono visti dall’abisso come una minaccia. Solo da loro germoglia il futuro della quarta frontiera chiamata utopia.
P. Mauro Armanino, Niamey
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