La mia Negritudine non è il sonno della razza, no,
ma il sole dell’anima, la mia negritudine vista e vita
La mia Negritudine è un martello in mano, è una lancia in pugno
Come il bastone del messaggero.
Non si tratta di bere, di mangiare l’istante che passa
Al diavolo se m’intenerisco per le rose di Capo Verde!
Il mio compito è di ridestare il mio popolo ai futuri sfolgoranti
La mia gioia creare delle immagini per nutrirlo,
o luci ritmate della Parola!

L. Senghor, La mia Negritudine

Questa è la poesia/manifesto di Léopold Sédar Senghor (Joal, 9 ottobre 1906 – Verson, 20 dicembre, 2001) il poeta africano più importante del ‘900, nonché uomo politico senegalese di spicco e il primo Presidente della Repubblica senegalese dal 1960 al 1980. Il primo africano a sedere come membro dell’Académie Francaise e il fondatore del partito politico “Blocco democratico senegalese”.

I suoi contributi alla rivisitazione e riscoperta moderna della cultura africana ne fanno uno dei più considerati intellettuali africani del XX secolo: dalla letteratura alla scultura, dalla filosofia alle religioni.

Nella poesia La mia Negritudine (anni ‘30) sono tracciati i parametri della prima scuola poetica africana e del senso dell’arte nera più in generale. Siamo nel 1936 quando Aimé Cesaire, poeta surrealista della Martinica, conia il termine Négritude e intorno a lui a Parigi si forma un gruppo tanto solido quanto eterogeneo, che fonda la rivista Lo Studente Nero.

Tra le pagine di questa rivista si può leggere una delle prime poesie di Léopold Sédar Senghor, intitolato Il ritratto:

Lui ancora non conosce
L’ostinazione del mio rancore acuita dall’inverno
Né la necessità della mia Negritudine tiranna
” […]

A partire proprio dal neologismo Négritudine si possono però rintracciare poteri e limiti di questo gruppo: una poetica identitaria di liberazione definita attraverso una parola francese, un vocabolo creato seguendo le regole più comuni della grammatica di questa lingua colonizzatrice.

Si può dire, come sostenuto da numerosi autori neri successivi, che questa stessa esperienza era organizzata secondo gli stereotipi, le categorie dei bianchi o, citando il poeta nigeriano Wole Soyinka, che: “la tigre non proclama la sua tigritudine; essa assale la sua preda e la divora.

D’altronde, se questa poesia nera non è risultata immune dall’influenza della cultura occidentale, simmetricamente è indiscutibile quanto l’arte europea del XX secolo ha subito il fascino dell’arte africana, come testimoniato dai saggi di Tristan Tzara o André Breton, dagli studi di Picasso o Matisse.

Nel 1974 Senghor riceve il premio letterario Guillaume Apollinaire per l’insieme delle sue opere poetiche.

La poesia di Senghor può apparirci come appetitosa o come ripugnante, troppo distante e troppo vicina, poco razionale e altamente sensoriale: legata irrimediabilmente all’udito e all’immaginazione: immaginazione che è una forma di intuizione dell’oggetto, che una volta incorporato viene delineato in una forma scultorea – e quella scultura è fatta da tutti e per tutti, per questo ci ripugna e ci assorbe. D’altronde, sempre secondo Senghor: ‘la vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere’”.

(Valerio G. Pedini, Poesie scelte di Léopold Sédar Senghor).

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A cura di Ludovica Piombino, Biblioteca Africana Borghero

Leggi nel nostro sito l’articolo: Léopold Sengor, l’africano cosmopolita”

Foto: blog Les 4 couleurs; institutjeanlecanuet.org
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