Beira è la seconda città del Mozambico per popolazione. È situata sulla costa dell’Oceano Indiano, su una baia formata dall’estuario del fiume Pungoè, al centro del Paese. È una città portuale e industriale, ma ha anche angoli incantevoli per il paesaggio e la natura.

Al tempo dei portoghese era una città vivace e deliziosa, con eleganti edifici in stile coloniale. Ma la guerra civile l’ha gettata in una povertà e in un degrado da cui stenta a risollevarsi. La guerra è finita da tempo, si sa, ma certe conseguenze si fanno ancora sentire.

Oggi la città dà un’impressione di precarietà e di disordine. Il popolo di Beira, con la sua naturale creatività, ha lentamente trasformato l’architettura coloniale degli anni Sessanta, e ha reinventato l’utilizzo e la funzione di numerosi edifici.

L’esempio più visibile è il “Grande Hotel de Beira”. Costruito negli anni ’50 in uno degli angoli più suggestivi della città, è stato progettato dagli architetti portoghesi José Porto e Francisco de Castro in stile art déco.

Un tempo questo edificio era considerato tra gli alberghi più lussuosi dell’Africa australe. L’hotel a cinque stelle fu costruito per ospitare l’élite internazionale del continente, ma dopo soli nove anni di attività fallì per via dei costi eccessivi e della mancanza di clienti.

Chiuso da più di 60 anni per la ricca clientela, è tuttavia oggi molto animato: le sue camere e i suoi ampi saloni sono state occupati da una folla di 3.500 persone, provenienti dalle fasce più povere, che vivono oggi in condizioni precarie in una struttura ormai fatiscente.

Lo chiamavano “l’orgoglio d’Africa”, perché per quei tempi era una struttura mastodontica, mai vista nel continente, con quattro piani e 122 lussuosissime stanze. Si estendeva per 12mila metri quadrati di fronte alla spiaggia, dotato di una piscina olimpionica e un magnifico parco.

Durante la guerra civile mozambicana, tra il 1975 e il 1990, fu sede politico-militare del Comitato Rivoluzionario del Frelimo, uno dei movimenti di liberazione che si contendevano il potere. Poi passò sotto il controllo dell’altro movimento, la Renamo, che usò i piani sotterranei come prigione.

Oggi viene chiamato “il più grande slum verticale del continente”. Ogni suite del grande albergo è stata occupata, ogni stanza di servizio, sgabuzzino, deposito e perfino le celle frigorifere o le vecchie cabine telefoniche sono state trasformate in case arrangiate in cui possono abitare famiglie con fino a dieci membri. I più poveri si sono costruiti dei piccoli rifugi con legno e teloni all’interno delle grandi sale interne.

“Questo posto potrebbe crollare da un momento all’altro. Ogni volta che c’è un forte temporale, le pareti trasudano d’acqua. Ci sentiamo in pericolo, ma non sappiamo dove altro andare. Non c’è lavoro fuori città”, racconta il giovane José Paulo che occupa metà di quella che una volta era la stanza numero 124 al primo piano.

Ma negli spazi enormi sono anche sorte varie attività economiche: sartorie, essiccatoi di pesci e gamberi, orti, una fabbrica mattoni e un’altra di carbone, e perfino due cinema sempre pieni di ragazzi.

In un lungo corridoio scuro e senza elettricità Dona Isabel lava sua figlia neonata in una bacinella, all’entrata della suite 140. “La mia famiglia è qui da tanto tempo. Abbiamo ereditato la stanza da mio nonno che combatteva nel Frelimo” – parla Isabel mentre asciuga la bambina. “È difficile crescere i propri figli qui. Manca tutto ed è un posto molto insicuro. Non ci sono parapetti e i bambini giocando rischiano di cadere di sotto. Accade spesso, anche agli adulti”.

Come mettere un po’ di ordine e disciplina tra le migliaia di occupanti abusivi del Grand Hotel? Lo spirito di solidarietà e auto-organizzazione del popolo mozambicano ha trovato la soluzione. Tramite elezioni interne e rispettando il grado di anzianità, vengono scelti i rappresentanti dei gruppi di famiglie occupanti a scadenza periodica. Questi scelgono il rappresentante del piano dell’edificio. E al vertice viene nominato un comitato di autogestione.

In questo momento sono tre donne che hanno in mano il governo del villaggio del Grang Hotel de Beira. “Ci occupiamo di risolvere i problemi interni, gestiamo i nuovi arrivi, abbiamo una cassa comune e teniamo le relazioni con le istituzioni”, spiega Dona Elisa, la più anziana di loro.

“Abbiamo fatto numerose richieste al governo. Prima di tutto di aiutarci a rimuovere i rifiuti, l’installazione di latrine in numero sufficiente per tutti gli abitanti, nuovi accessi all’acqua. Ma abbiamo ricevuto solo promesse”, protesta la donna che è istallata con la famiglia nella cucina della camera 202 al secondo piano. “Vorrebbero sfrattarci per demolire tutto” – continua Elisa. “Sappiamo che stare qui è pericoloso ma dove possiamo andare? Se lo Stato ci desse delle nuove case o dei terreni, noi saremmo pronti a lasciare questo posto”.

Storia adattata da Altreconomia

Foto: Paula Alves-Visao.pt; Flickr CC: F Mira; D Odorizzi; S. Jahnsen

Altre foto di Felipe Abreu nel sito della BBC