ogoni delta del nigerL’Africa, lo sappiamo bene, è uno scrigno ricchissimo di risorse naturali e minerarie ambite da numerosi attori locali e internazionali. Ricchezze attorno alle quali ruotano enormi interessi, profitti, ma la cui estrazione e il cui sfruttamento provocano, in vari casi, inquinamento nocivo per l’essere umano, gli animali e l’ambiente.

Tra gli esempi più emblematici, possiamo citare il Delta del Niger, dove le compagnie petrolifere sono state accusate di contaminazione dell’ecosistema e di violazione dei diritti umani.

Violazioni che hanno portato alla morte di Ken Saro-Wiwa, simbolo della comunità degli Ogoni e portavoce dei cittadini nigeriani oggetto di spoliazioni economiche e ambientali da parte delle multinazionali del petrolio (per approfondire, leggi l’articolo sul nostro sito dedicato a questo tema).

Più recentemente, in Niger e in Costa d’Avorio sono emersi due casi indicativi di un uso irrazionale e deleterio delle risorse.

Niger, i danni dello sfruttamento aurifero

In Niger, si è verificata la morte sospetta di decine di ovini (in particolare, pecore, capre) e cammelli. Decessi strani, che hanno spinto le autorità a compiere una scelta inaspettata, ovvero la chiusura temporanea di vari siti di estrazione dell’oro nel nord del Paese.

Gli allevatori sostengono che gli animali si siano avvelenati abbeverandosi con acqua contaminata, scaricata dalla società cinese di estrazione dell’oro Sahara Sarl.

La società è attiva nel nord del Niger, nella regione di Agadez. E proprio in questa zona si trovano i villaggi di Tamannit e Fasso, dove si sono registrate numerose e inaspettate perdite di bestiame presumibilmente dovute ai residui chimici provocati dallo sfruttamento aurifero. Tutto ciò provoca una serie di effetti a domino: conseguenze negative sull’economia locale, sui livelli di sussistenza degli allevatori e della popolazione, sull’ambiente nel suo complesso.

Critiche verso le società straniere che operano nel nord del Niger sono mosse da tempo da diverse ONG impegnate nella protezione della natura. Al centro delle accuse non vi è solo la cinese Sahara Sarl, ma anche la multinazionale francese Orano (ex-Areva), che sfrutta da vari decenni i giacimenti di uranio della zona di Arlit, provocando enormi danni ambientali e umani.

Il giornale Aïr Info, con sede a Agadez, a proposito della morte inaspettata del bestiame attorno alle falde acquifere dove opera la società Sahara Sarl, ha pubblicato un rapporto ufficiale in cui si legge che:

il disastro è stato causato dalle sostanze chimiche utilizzate nelle miniere, siti che rappresentano una seria minaccia per la fauna selvatica e le falde acquifere”.

Per questo, il governo nigerino ha ordinato la chiusura temporanea di diversi centri minerari, tra cui quelli gestiti dalla società cinese Sahara Sarl, al fine di indagare sulle cause degli avvelenamenti e prevenire ulteriori incidenti.

Costa d’Avorio, la “maschera” della sostenibilità

Un altro recente caso di sfruttamento e inquinamento dell’ambiente è emerso in Costa d’Avorio.

Le regioni coinvolte sono quelle di Lagunes e Agnéby-Tiassa, dove è attiva la società Adam Afrique, che da anni scarica le sue acque reflue nei corsi d’acqua, in particolare nelle città di Kossihouen e Sikensi. L’azienda ivoriana produce saponi e oli da tavola a base di noci di palma.

Sul suo sito web ufficiale vi è una sezione dedicata alla “sostenibilità”, in cui si legge che “Adam Afrique aderisce al marchio e all’associazione Eco Responsable al fine di svolgere il suo ruolo di cittadinanza responsabile, per una Costa d’Avorio sostenibile”.

Le ispezioni del ministro dell’Ambiente, dello Sviluppo sostenibile e della Transizione ecologica, Assahore Konan Jacques, e del ministro dell’Idraulica, Igiene e Igiene, Bouaké Fofana, presso i siti denunciati, hanno confermato la drammatica situazione ecologica.

Per questo, è stata decisa la chiusura temporanea dei siti di Adam Afrique, ma non solo. La società ivoriana dovrà ripristinare l’ambiente inquinato, da cui dipendono gli esseri umani e la biodiversità.

a cura di Silvia C. Turrin

foto: IOM.int; yeclo.com