Presentando un libro di Marco Testi, Il libro come salvezza dalla solitudine e dalla paura, Torino, Fuorilinea 2021, il recensore annota:
“Conosciamo tutti il misterioso potere dei libri che riescono ad alleviare i nostri disagi e donarci coraggio, serenità speranza.
I libri ci accompagnano nel nostro cammino facendoci viaggiare, permettendoci di conoscere realtà diverse dalle nostre, aprendoci i nostri orizzonti, diventando amici che hanno il potere di dialogare con noi, rafforzando le nostre capacità interiori. Essi ci sono compagni nella nostra solitudine, ci aiutano a vincere le nostre paure e sono anche un efficace rimedio anche per le nostre ferite interiori.”
E ci sono dei libri che non invecchiano, come questo che presentiamo di Nozipo Maraire, Zenzele, Lettera per mia figlia, Mondadori 1966, pagine 237.
Quando scriveva questo libro Nozipo Maraire aveva 32 anni. Aveva studiato in prestigiose università americane e viveva negli Stati Uniti dove lavorava come medico specializzato in neurochirurgia. Ha vissuto per trent’anni negli Stati Uniti, prima di tornare nel suo paese, lo Zimbabwe.
La dottoressa Maraire è nata in quella che era conosciuta come Rhodesia meridionale, una colonia britannica. Le opportunità di istruzione erano limitate per i neri dello Zimbabwe e suo padre andò all’estero per frequentare l’università. All’età di 8 anni, Nozipo raggiunse suo padre e nel corso degli anni visse a Seattle, Toronto e in Giamaica.
Dopo l’indipendenza dello Zimbabwe, la dottoressa Maraire torna a casa per un breve periodo prima di continuare i suoi studi nel Galles, dove conseguì il diploma di scuola superiore per poi entrare ad Harvard per studiare biologia. Il suo interesse per il funzionamento del cervello l’ha portata a frequentare la facoltà di medicina.
Dopo la laurea in medicina e chirurgia, frequenta il corso di specializzazione in neurochirurgia presso l’Università di Yale. Dopo la specializzazione, la Maraire completa gli studi in neurochirurgia pediatrica al Beth Israel Hospital di New York, quindi lavora come neurochirurgo in Delaware, Ohio e Oregon prima di tornare in Zimbabwe nel 2012 con il marito (l’urologo Allen Chiura) e i loro quattro figli.
Una donna africana decisa a lasciare l’Africa
Questo romanzo è concepito come una lettera a sua figlia. Il narratore è una donna africana che scrive a sua figlia che ha deciso di lasciare l’Africa. La figlia è una ragazza moderna che rimette tutto in discussione, anche le tradizioni e la mentalità della sua gente.
Ma fra le due non c’è incomunicabilità, e la madre cerca di raccontare alla figlia storie della sua vita, della sua famiglia, dei suoi antenati. Sono storie in cui si parla di amore, di guerra, di razzismo, di donne, di vita e di morte. Ascoltando a assorbendo queste storie Zenzele imparerà a far tesoro della saggezza della sua gente et non perderà le radici con la sua terra.
Qui l’Africa è raccontata da una scrittrice africana. Come dice sua madre a Zenzele: “Sta a noi crescere ed educarci, definire noi stessi e scrivere la nostra storia. Tuo padre ripete sempre un detto famoso: Finché il leone non comincerà a scrivere, i racconti di caccia celebreranno sempre e solo il cacciatore”
La figlia è dunque invitata a percorrere tre direzioni: entrare e conoscere la storia della sua famiglia, far tesoro del patrimonio culturale del suo popolo, assumendolo come punto di riferimento sicuro del suo cammino, capire la storia recente del suo paese, specialmente la guerriglia che lo ha portato all’indipendenza. Questi tre aspetti hanno come sottofondo il razzismo onnipresente.
Le radici: la Famiglia
Racconta sua madre:
“La vigilia delle nozze, mentre stavo provando l’abito nuziale, la madre di tuo padre, sgattaiolò nella mia camera, e mi chiuse dentro a chiave… Mi condusse verso il letto… con mio orrore e sorpresa la vecchia cominciò a sbottonarsi la vestaglia… Vidi i suoi seni penduli e lucenti sul suo corpo ossuto, ma avvizziti, come gigantesche prugne nere… poi mi afferrò la mani destra e la posò sulle sue guance rugose, mi fece accarezzare ogni screpolatura:
‘Questa è per via delle lacrime che ho versato quando è nato il primo figlio… faceva male che il lampo che spezza l’albero. Questa grinza qui mi è venuta quando ha cominciato a parlare… questo solco qui… tocca quanto è profondo… mi è venuto quando ha lasciato la fattoria per unirsi alla lotta d’indipendenza…’
Fece un sospiro… si scosse tristemente la testa e fece scivolare la mia mano sulla pelle coriacea perché le stringessi un seno… ho allattato sei figli, mia cara. Tutti avidi e forti, eh eh! Si massaggiò dolcemente i seni. Le fui riconoscente quando lasciò le mie mani e si coprì… Stasera sono venuta a trovarti, per dirti le parole che mia suocera disse a me la vigilia delle mie nozze, tanto tempo fa, affinché la saggezza dei nostri antenati possa crescere e maturare con ogni nuova gemma che sbocca in un fiore. Così le nostre radici affonderanno sempre più nella terra e le nostre parole non moriranno mai.”
Conoscere e rispettare il passato
In Kaidara il vecchio dal corpo serpentiforme dice ad Ammadi: “Figlio e discepolo pieno d’attenzioni, per nulla al mondo tu violerai un divieto in essere da secoli” (Si veda: I tre consigli)
Per rispettare bisogna conoscere e poi ci si può conformare. Un invito ad assumere le proprie responsabilità. Il volume è corredato da una serie di storie che hanno questa funzione: conoscere per rispettare, altrimenti non si potranno impedire conseguenze nefaste per tutti. Un esempio.
Due innamorati si vedevano sempre di nascosto dai loro genitori perché questi osteggiavano in tutti i modi il loro incontro, si opponevano con veemenza alla loro unione. I due si incontravano sempre di nascosto, ma vennero scoperti di nuovo e separati con l’obbligo di non vedersi più. Ma loro trovavano sempre nuovi sotterfugi per incontrarsi. Solo che i loro piani venivano sempre scoperti dai genitori.
Al colmo della disperazione andarono a trovare un sacerdote tradizionale per chiedere una pozione che li avrebbe fatti dormire per sempre. Indossarono i loro vestiti più belli e la donna si fece prestare un abito nuziale. Fuggirono in foresta, si tennero per mano e bevvero la pozione. Fu così che li ritrovarono l’indomani, come due sposi con le dita intrecciate. I genitori erano così disgustati che li seppellirono separati, ciascuno nella terra della famiglia di origine, senza cerimonia alcuna né scambiarsi alcuna parola.
Per anni le due famiglie furono tormentate, la sventura si abbatteva su di loro, anno dopo anno, i raccolti divennero più poveri e malattie strane e incurabili fiaccarono i giovani e affliggevano i vecchi. Alla fine consultarono una sacerdotessa che consigliò loro di pacificare gli avi per aver reciso i germogli di quell’amore: avrebbero dovuto riseppellire i figli come si deve e fra pace fra loro.
Le famiglie, per la prima volta, si incontrarono e si riconciliarono. Quando decisero di dissotterrare le salme scoprirono con orrore che la bara di Dikani, la giovane donna, era vuota. L’interno era intatto come quello di una bara nuova.
Il giorno seguente fu la volta della bara di Rudo, : dentro c’erano due cadaveri, l’uno accanto all’altro, le dita ossute allacciate, con qualche sparuto brandello di carne in decomposizione.
Il sacerdote riseppellì i due in un’unica bara più grande, uno accanto all’altra, in presenza delle due famiglie sopraffatte dal terrore. Nella radura ora è cresciuto un albero con due tronchi avvinti dai rami intrecciati, con frutti dolcissimi e stupendi.
Il tema della trasformazione in pianta dell’essere umano e dei fiori che si intrecciano lo troviamo in diverse tradizioni letterarie: si veda Polidoro nel Terzo libro dell’Eneide, o la foresta dei suicidi nel canto XIII dell’Inferno.
Razzismo e sport
“Non ci restano che gli italiani”.
“Stai scherzando, vero?”
“Per niente”.
“Ma non sono come noi, Danie”.
“Cosa intendi dire?”
“Piccoli. Gracili. Indisciplinati. Bugiardi. Vigliacchi. Isterici. E cattolici. Ti basta?”
Così inizia il libro di Massimo Calandri Non puoi fidarti di gente così (Milano, Mondadori, 2022, pagine 228). L’autore ripercorre un’avventura sportiva, e non solo, poco nota: “il tour che nel lontano 1973 la Nazionale italiana di rugby compì nel Sudafrica dell’apartheid. Attraverso un viaggio in uno sport poco conosciuto nella Penisola, la vicenda ci immerge in un razzismo profondo e violentissimo, troppo a lungo elevato a sistema… Non è solo il razzismo degli altri, è anche il “nostro” razzismo: in quegli anni Settanta, ad esempio, è anche quello degli italiani rimasti nel Paese africano dopo la Seconda guerra mondiale, che si rivelano, come nota uno dei protagonisti di quel viaggio, ancora più razzisti dei boeri, che credevo fossero i più razzisti di tutti”.
È questo il clima in cui vive Zenzele nell’allora Rhodesia con i suoi sussulti, fremiti, guerriglia e lotta, per l’indipendenza. Ma è anche il clima che continuiamo a vivere noi oggi, come ci ricordano, le opere di Koffi Komla Ebri Imba, Razzismi, o Negretta, di Marilena Umuhaza Delli, una donna nata in Italia che racconta la vita sua e della sua famiglia in Italia.
“Se tua madre lavora, deve per forza di cose pulire le scale. O fare la puttana. Se invece cammini da sola per strada, sei tu a essere presa per una puttana. Succede se sei una donna. Nera. In Italia. Oggi. E non ha nessuna importanza che tu sia nata in questo paese, perché ci sarà sempre chi, ascoltandoti parlare, non potrà fare a meno di stupirsi di come tu conosca così bene l’italiano… Accade perché la lingua della discriminazione non conosce mezzi termini.”
E aggiunge agli episodi di brutale razzismo mille occasioni di sottile disprezzo e di malcelata ignoranza. A raccontarlo è una ragazza diventata grande sentendosi chiamare “Negretta” e cresciuta trovando ogni giorno la forza per affrontare le ferite inferte alla sua anima dal sessismo, dal disprezzo per i poveri e dalla xenofobia.
Ed è esattamente ciò che dice alla figlia Zenzele quando seguendo il padre ad un congresso in Polonia, Zenzele si trova in un bar a sorseggiare un caffè, ed è allora avvicinata da una signora che le propone di assumerla come cameriera, perché ha compassione della “povera negretta” appena arrivata in Polonia…
Il padre la rassicura:
“Il pregiudizio è negli occhi di chi ti guarda, il razzismo è qualcosa di singolare, è come une fitta nebbia che offusca la vista e la capacità di giudizio anche di menti eccelse. Per quella donna. Accecata com’è dal colore, le tue tre dimensioni sono: il nero il nero e ancora il nero. Non poteva immaginare che tu a casa hai un intero staff di domestici. Se glielo avessi detto non ti avrebbe creduta. Va oltre la sua esperienza, tu sei al di là del piccolo mondo che conosce. È come se fossimo di nuovo in Rhodesia: il resto del mondo è rimasto impantanato nell’apartheid di Smith mentre noi siamo andati avanti.”
P. Silvano Galli
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