P. Filippo Drogo: cinque anni a servizio della formazione spirituale dei seminaristi SMA

P. Filippo ha vissuto la sua ultima esperienza di mia missione in modo un po’ particolare: ha svolto la funzione di formatore spirituale a Calavi, in Benin, dove la SMA ha un centro di formazione internazionale per i suoi seminaristi dei vari continenti. Si chiama ASI, Anno di Spiritualità Internazionale. È arrivato a Calavi nel settembre 2016, e nel prossimi mese di luglio termina questo servizio e rientra in Italia, per svolgere altre funzioni. Abbiamo voluto porgli qualche domanda su questi tre anni passati in Benin, con i giovani seminaristi SMA.

 – Puoi trovare tre parole significative che possono riassumere ciò che hai vissuto in questi anni di missione in Benin e nella formazione?

La prima è, come si può immaginare, pazienza: vivendo in un contesto complesso, in una comunità formata da persone che arrivano da continenti diversi, da culture, lingue, tradizioni, formazione diverse, per poter vivere insieme, c’è bisogno prima di tutto di essere ben radicati nella propria scelta e vocazione. Perché la comunità internazionale è interessante, ma molto esigente. Poi, per poter realizzare il programma che ci siamo dati, occorre davvero tanta pazienza. Prima di tutto con me stesso, perché a volte si hanno vedute diverse su scelte, su programmi, su valutazioni. Quindi anche aver la pazienza di aspettare che una tale idea o proposta abbia il tempo necessario per essere compresa. Pazienza quindi con gli altri formatori: proveniamo da continenti diversi (Africa, Asia, Europa), con cammini formativi molto diversi. Poi pazienza con i giovani, perché provengono da case di formazione diverse. Qui a Calavi, per alcuni è davvero una scoperta, ed inizia per loro un vero cammino di discernimento…

A fianco della pazienza metto il rispetto. Per poter guadagnare la fiducia dei giovani seminaristi, soprattutto coloro che accompagno spiritualmente, la prima fatica è quella di instaurare un rapporto di rispetto e fiducia reciproci. Elementi indispensabili per poter creare un clima che permetta di parlare, scambiare e progredire nel cammino spirituale.

Da ultimo, ma non meno importante parlerei di scoperta: da parte dei giovani, come dicevo, scoperta della comunità SMA, del suo carisma, della sua spiritualità, del suo fondatore mons. de Brésillac, del patrimonio spirituale e di testimonianza offerta da tanti confratelli (il 18 aprile abbiamo festeggiato i 160 dall’arrivo dei primi missionari in Benin: i padri Fernandez e Borghero), e che ancora offrono in tante parti dell’Africa e altrove nel mondo.

Una scoperta accompagnata dal padre spirituale, che è stato il mio ruolo. E quindi scoperta da parte mia di ascoltare quello che il Signore compie nella vita di questi giovani.

– La chiesa del Benin è la prima che la SMA ha fondato in Africa: che impressione ti dà oggi?

La chiesa del Benin è cosciente del sacrificio eroico dei primi missionari, ed è riconoscente a Dio e alla SMA per il dono del vangelo e della fede. La chiesa del Benin è cosciente che la fede è stata portata in Africa, grazie al dono della vita, che tanti missionari hanno fatto a causa del vangelo. Inoltre riconosce che la SMA è come la sua madre ed i missionari come i suoi padri nella fede. Molti sacerdoti sono cresciuti “all’ombra” dei padri e delle suore venuti dall’Europa e a loro devono tutto: la trasmissione della fede, ma anche l’aiuto materiale, la costruzione di seminari e chiese.

– Hai lavorato con i giovani seminaristi, futuro della SMA e della missione: quale è l’idea di missione che portano nel cuore e che li motiva a dedicarci tutta la vita?

Una idea del fondatore della SMA, mons. de Brésillac, che ritorna spesso, è: “Andare verso i più abbandonati”. È una frase forte: lo era ieri, quando i missionari sono arrivati, 160 anni fa, e lo è oggi. I poveri, gli abbandonati ci sono (purtroppo) sempre. A noi di essere attenti ad ascoltare dove lo Spirito ci guida, comprendere quali sono le povertà di oggi, chi sono oggi i più abbandonati.  Un altro elemento che colpisce ed attrae è la semplicità di vita dei missionari SMA. Attrae perché riconoscono in loro una vocazione ed una scelta radicale, concretizzata dal lasciare la propria terra, famiglia, cultura, lingua, per andare a portare il vangelo, in un’altra cultura. È una scelta radicale e forte.

– Sei vissuto in un ambiente molto internazionale: quali sono le sfide dell’internazionalità per il mondo e la missione di oggi?

I giovani che arrivano a Calavi, sono figli del nostro e loro tempo. I social network fanno parte e sono ormai un aspetto quasi irrinunciabile della loro vita. Più volte, chiedendo quali sono le sfide della missione di oggi, mi sono sentito rispondere: essere presenti sui social network. Questo credo che sia un segno dei tempi, ma in esso vedo anche un pericolo: ridurre la missione ai contatti sui social, perdendo così tutta la ricchezza del contatto personale, ed il rischio di tralasciare tutte quelle categorie (anziani, malati, regioni dove non c’è internet) che ne sarebbero escluse. Lo trovo come un pericolo di impoverimento del nostro carisma, il ripiegamento verso il basso. Può essere un ridimensionamento dell’annuncio, del contatto personale e quindi della testimonianza personale. Penso un punto sul quale riflettere.

– Qual è il ricordo più bello che conservi nel cuore di questi anni?

Non c’è un ricordo particolare- Ci sono varie “foto” di questi anni, impresse nella mia memoria: il 1° ottobre, quando i giovani arrivano, spaesati, il primo incontro in gruppo, il primo incontro in accompagnamento sèirituale, le feste dell’8 dicembre (la fondazione della SMA), il mini-stage di dicembre-gennaio, le nostre valutazioni (non sempre semplici, anzi…). Forse il momento che li riassume tutti è il 25 giugno: il giorno del primo giuramento di appartenenza alla SMA, nell’anniversario della morte di Mons. de Brésillac. Momento di gioia alla fine di una tappa importante come l’Anno di Spiritualità Internazionale, un cammino intenso, ricco, esigente, che apre la strada allo stage pastorale di un anno e poi agli studi di teologia.

– Che doni la missione ti ha dato in questi anni e che ora vuoi condividere con la chiesa italiana?

La chiesa qui è giovane, solo 160 anni dall’arrivo dei primi missionari. C’è la freschezza, c’è la voglia di mettersi in gioco, c’è la difficoltà di fare scelte radicali. Tutto questo dinamismo sento che è una ricchezza, è un aspetto di quello che ho vissuto, che io posso portare con me e che può essere di aiuto alle nostre comunità cristiane in Europa. Non sarà facile trasmetterlo, ma penso che le nostre antiche comunità ne abbiano bisogno.

Guarda un video di p. Filippo: