P. Silvano Galli dalla sua missione di Kolowaré (Togo) ci invia questo toccante ricordo di un suo confratello, p. Louis Lutz, in cui racconta quello che ha vissuto la notte di Natale del 1958. A quell’epeca p. Lutz insegnava al collegio S. Joseph di Lomé e trascorreva le sue vacanze a Kolowaré.
Ecco il suo racconto:
Mi trovavo in piena savana africana, al nord del Togo, esattamente nel villaggio di Kolowaré, villaggio abitato esclusivamente da lebbrosi. Senza dubbio una delle più grandi concentrazioni di questo genere in Africa occidentale e forse di tutta l’Africa. Era la sera del 24 dicembre 1958.
Nella mia capanna traballante, completamente isolata dal villaggio, mi sono chinato su una grande cassa di legno bianco che mi serviva da tavolo.
Davanti a me la Bibbia, per preparare la predica per la messa di mezzanotte. Leggo e rileggo le circostanze della nascita di Gesù a Betlemme. “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”.
Leggendo, non posso non pensare al villaggio vicino, a questo villaggio dalle capanne rotonde, basse, con l’entrata molto stretta. È stato “ideato” e costruito, una trentina d’anni, per raggruppare gli ammalati e curarli. Ancora oggi, i lebbrosi di tutto il nord del Togo vengono a stabilirsi qui.
Attualmente il villaggio conta tra i 700 e gli 800 abitanti, tutti più o meno contaminati dal bacillo di Hansen e hanno perso totalmente, o quasi, le falangi delle mani e dei piedi e alcuni sono sordi, altri – tanti – ciechi. Quest’anno il raccolto è stato particolarmente scarso a causa della siccità. E ora c’è la carestia. Una fame che tormenta questa povera gente da quasi più di due mesi. Non hanno più manioca, ignami, arachidi, mais, fagioli. Per alcuni è miseria nera. “Quasi tutti i giorni” mi ha detto questa mattina un vecchio, mentre lo curavo “Quasi tutti i giorni scaviamo una fossa per coloro che muoiono” per sfinimento e per fame.
Eppure questa sera è Natale. Natale qui e in tutto il mondo!
“In quella notte”, gli angeli avevano annunciato una grande gioia ai pastori…
Come vorrei anch’io annunciare una grande gioia ai miei lebbrosi, i più poveri dei poveri. Una gioia immensa, la gioia ad esempio di poter offrire loro un regalo, un po’ di riso, un po’ di manioca qualunque cosa per placare la loro fame. Ma non sono un angelo, io. Solo gli angeli possono annunciare ai poveri la gioia della notte di Natale.
Io sono solo un missionario con un cuore molto grande. Un prete di 35 anni, il solo Europeo in un raggio di decine di chilometri. Uno che vorrebbe aiutare e soccorrere tutti coloro che sono malati nel corpo e nell’anima, ma che non può, per mancanza di mezzi, aiutare tutti coloro che gli sono vicini, queste persone che hanno fame, molta fame.
Stanco, scoraggiato, cosciente della mia totale impotenza chiudo la Bibbia, esco e faccio cento passi davanti alla mia capanna. Poi imbocco un sentiero per incamminarmi dove solo Dio sa. Notte di Natale!
In cielo le stelle si illuminano una a una. Lontano i cinocefali, queste scimmie che urlano e abbaiano come i cani, iniziano il loro concerto notturno. Laggiù, al villaggio tuttavia, tutto è inerte. Non ci sono grida, né canti da più settimane, non ci sono tam-tam. Quando si ha fame da molto tempo, non si canta più, non si danza più, non ci si diverte più.
Immerso nei miei pensieri, passeggio per circa una mezz’ora quando improvvisamente… intravvedo due forme umane, due forme minuscole, rannicchiate attorno a un fuoco scoppiettante sotto un grande mango. Mi avvicino molto dolcemente per non fare paura a questi esseri solitari. Mi avvicino e scopro due bambini piccoli. Una bambina di circa 6 anni e un bambino di circa sette. Pioviggina. Per proteggersi dalla pioggia si sono rannicchiati l’uno contro l’altra, coperti soltanto da uno straccio sudicio già tutto bagnato. Nel vedermi, nascondono il loro viso sotto i brandelli che servono loro da indumenti. Forse non hanno mai visto un uomo dalla pelle bianca?
“Bambini, cosa state facendo?”
“Prepariamo il nostro pasto” balbetta uno di loro. “Che cosa state preparando di buono?”
“Dei fagioli… guarda… dei fagioli!”
Mi avvicino, mi chino verso di loro.
“Ah! dei fagioli. Dei fagiolini! Sono buoni.. Oh, si sono buoni. Ecco, prendine e assaggiane un po’.”
Ho preso nel fuoco alimentato da fuscelli umidi un baccello di fagiolini grigliati a metà. Lo porto alla bocca fingendo di mangiarlo.
“Hm! È buono… Grazie! Grazie!…All’uomo bianco piacciono i fagiolini”, dico loro.
Poi avvio lentamente una conversazione con loro ed essi rispondono alle mie domande sempre più fiduciosi, specialmente il bambino. Parlano e, poco a poco, vengo a conoscere cose terrificanti.
Il loro padre è morto l’anno scorso; la loro madre è morta da 10 -15 giorni, non lo sanno esattamente.
Al villaggio, nessuno li ha accolti. Nessuno ha dato loro da mangiare. Allora sono partiti e venuti qui sotto quest’albero.
In tempi normali, i bambini sarebbero stati accolti. Ma in questo tempo di carestia, ahimè!
“Ma perché non siete andati dalle suore che abitano non lontano dal villaggio?”
“Nostra mamma è venuta con noi al villaggio ma è morta subito. Non conosciamo nessuno. Non conosciamo neanche te, né le Suore”, fu la loro risposta.
È stato atroce, straziante, sconvolgente. Di fronte a questo doloroso racconto e spettacolo ho faticato a trattenere le lacrime. Ma subito ho pensato al primo Natale, al Natale di 2000 anni fa. Quel giorno si sono chiuse tutte le porte per la Sacra Famiglia …per loro non c’era posto da nessuna parte.. erano di troppo.
Quel giorno, tuttavia, è nato IL FIGLIO DI DIO, sulla paglia in una stalla. In quel giorno si è fatta l’esperienza della crudeltà umana, di una crudeltà, purtroppo, sempre attuale.
Si, alla vista di questi due piccoli bambini, di questi due orfani abbandonati totalmente a loro stessi, ho pianto. Ma ho anche sentito in me, in fondo al mio cuore, una gioia intima, inesprimibile, la gioia di un vero Natale come augurerei a tutti gli uomini di provarla. Ho capito che il bambino del presepe, lo si trova ai nostri giorni non più adagiato nella mangiatoia di una stalla, ma nei poveri, i rifiutati, i disprezzati, gli infelici. In questo Natale, ho scoperto Gesù in questi due piccoli abbandonati e li ho presi con me.
C’era ancora posto nella mia locanda. Ci dovrebbe sempre essere posto in una locanda. Li ho presi per mano, il fratellino e sua sorellina, uno a destra l’altra a sinistra e insieme ci siamo incamminati verso la mia capanna. In silenzio, senza dire una parola. Volevo ricevere questi bambini a casa mia nel raccoglimento.
E li ho ricevuti, come avrei ricevuto Cristo – nella povertà della mia capanna, ma in un clima di abnegazione e d’amore che fu senz’altro quello dei pastori.
Come avrei voluto offrire loro delle belle e buone cose, una bambola, un pallone…Ma avevano soprattutto fame, i miei due bambini trovati. Erano talmente magri e scheletriti! Pensate: da almeno otto giorni si erano nutriti solo di fagiolini e di frutti selvatici e avevano dovuto dormire all’aperto… Bambini di sei- sette anni abbandonati totalmente da tutti. Otto giorni ancora e, anche loro, sarebbero morti!
Durante il cammino, il nostro silenzio è stato interrotto solo dal bambino: “Ho fame. Ci darai da mangiare?” Mi chiede ansiosamente a più riprese.
Queste parole mi hanno ferito il cuore. Ho dato loro da mangiare. Li ho fatti sedere alla mia tavola e ho servito loro il “cenone”. Ho dato tutto ciò che avevo ancora. Pane, qualche biscotto, salsiccia d’Alsazia, qualche banana. Poi ho preparato loro un giaciglio con delle coperte e ho detto: “ora, bambini miei, a nanna!”
Erano entrambi contenti, felici come dei bambini di un racconto di fate, anch’io ero felice come non lo ero mai stato. Quando entrambi si erano coricati mi chinai ancora una volta sui loro faccini radiosi. Allora la bambina che fino ad ora non aveva aperto bocca si raddrizzò leggermente e pronunciò le parole che non dimenticherò mai nella mia vita: “Sei buono, tu……E’ bene essere buoni Youkado (uomo bianco)… Sei buono come nostra mamma”.
Questo è stato il più bel Natale della mia vita!
In questa notte, ho capito che Natale non è veramente Natale se nella vita non si fa veramente qualche cosa di buono per gli altri: essere loro vicino, aiutarli, consolarli, amarli. Se non si pensa agli altri, ai nostri fratelli infelici, il nostro Natale è un Natale senza amore. Non sarà neanche Natale perché è per amore che il Bambino Divino vuole salvare il mondo. In quella notte, ho capito che per essere felici bisogna condividere la miseria degli altri, le loro povertà, le loro sofferenze, il loro abbandono.