Phyllis Omido, attivista ambientalista del Kenya: più forte delle multinazionali del piombo! Vince la sua causa contro le multinazionali del piombo delle batterie.
Alcuni giorni fa il tribunale di Mombasa, sud del Kenya, ha emesso il suo verdetto. Phyllis Phyllis Omido, donna e ambientalista, ha vinto la sua causa contro alcune aziende che smaltiscono batterie di auto e camion per conto di multinazionali straniere.
Phyllis è riuscita a dimostrare che 3 mila abitanti della baraccopoli di Owino Uhuru, dove vive con la famiglia, sono stati avvelenati per anni con il piombo rilasciato dagli impianti industriali costruiti a pochi passi dalle loro case.
Le aziende ora dovranno dare un risarcimento di 12 milioni di dollari agli abitanti colpiti da intossicazione.
Era il 2009, e Phyllis – all’epoca trentenne – fu assunta con un ruolo amministrativo nell’impianto, aperto da poco più di un anno. Tre mesi dopo, il suo bambino cominciò a vomitare sempre più spesso. Le analisi del sangue del piccolo King David dissero che aveva valori di piombo 7 volte superiori a quello considerato critico.
I dottori le spiegarono che era lei stessa, Phyllis, ad avvelenarlo con il latte del suo seno, avvelenato dalle esalazioni che respirava in fabbrica.
Omido denunciò la scoperta all’azienda, dove le fu imposto di non divulgare alcuna informazione. Lei si licenziò e cominciò a indagare nella comunità in cui viveva. Presto si accorse che moltissima gente, in quelle baracche, stava male: problemi respiratori, reni al collasso, macchie sulla pelle, aborti spontanei.
Cominciò a organizzare proteste sempre più partecipate. Nel 2014 l’impianto fu chiuso definitivamente (perché diventato illegale per la legge keniana): ma non bastava.
Per anni gli abitanti avevano visto fumo nero uscire dalle ciminiere di notte, e liquami scorrere fino a ridosso delle loro baracche. Decine di persone morirono in questi anni: Phyllis ne conta circa un’ottantina.
Per questo nel 2015 fece causa allo Stato e alle società che avevano avvelenato la sua comunità. Fu minacciata più volte, ma non si arrese. Provocò la chiusura di diversi impianti in tutto il Paese, e per questo vinse il più importante premio per gli ambientalisti al mondo. Non era comunque abbastanza: voleva che il suolo dove viveva la sua gente fosse ripulito, e che chi aveva perso i cari fosse risarcito. Ieri ha ottenuto giustizia.
Il Goldman Fund, fondazione ambientalista americana, le ha attribuito nel 2015 il Goldman Environmental Prize, la più alta onorificenza mondiale in questo campo, rivolta ad attivisti dell’ambiente che promuovono iniziative dal basso, mobilitando le comunità locali.
Notizia ripresa dal Corriere della Sera. Foto: goldmanrpize.org